TRAMA
Fine 1800. Maggie vive con le figlie nel Sudest americano, dopo l’abbandono di suo padre che si è trasformato in un apache. Sarà costretta a riavvicinarsi all’uomo quando una banda di malviventi rapisce la maggiore per venderla al mercato degli schiavi: il loro capo è un brujo, stregone capace di devastanti sortilegi.
RECENSIONI
Ron Howard batte la strada del western esoterico ma dopo cinque minuti si ritrova col culo per terra: i soliti stereotipi sono noccioline per lo spettatore, che per l’ennesima volta è chiamato a biascicare “sì, però i paesaggi...”, “sì, però l’omaggio al genere...”, “sì, però gli attori...”. Vaneggiamenti come goffa uscita di sicurezza per una pellicola tutta sbagliata, che trova nell’iniziale estrazione di un dente cariato il suo momento di massimo interesse: da lì in poi, figurine prevedibili che si muovono a cavallo, uccidono e vengono accoppate gironzolando senza un perché. Allucinante la successione degli eventi: i protagonisti, che accarezzano grilletti spernacchiando ogni filo logico, guadagnano in scioltezza il patentino di imbecillità (il picco: l’odiosa missing del titolo non riconosce il suo salvatore indiano provocando una carneficina). Una trappola per il pubblico è la triste realtà di un uomo che tanto tempo fa regalava sorrisi in HAPPY DAYS: adesso Ron, dopo l’uscita retorica di A BEAUTIFUL MIND premiata dall’Academy –che quantomeno si mimetizzava nel losco sottobosco del biopic-, dimostra irrevocabilmente di aver assimilato la parte peggiore dello Star System americano. Il paventato rispetto per lo spettatore è spudorata bugia, l’alibi dell’entertainment non possiede il dono del ritegno: le vittime della visione subiscono immagini risapute, dalla “straordinaria avventura” fino alla “morte eroica”, per finire con “l’emancipazione del soggetto femminile” restituita attraverso la “maestosa rappresentazione” di una Cate Blanchett amazzone nella prateria. Si lasceranno le sale (per fortuna poche in tutta Italia, il film è uscito in sordina come flop annunciato) placidamente rassicurati, tra le braccia di un docile e nauseabondo ottimismo. Che noia.
THE MISSING è un film insieme magniloquente e cameristico, nutrito di luoghi comuni (visivi non meno che musicali, complici gli apporti impeccabilmente retorici dovuti rispettivamente a Salvatore Totino e James Horner) e capace d’improvvisi guizzi (memorabile la fine – puro gore elisabettiano – riservata all’amante di Maggie), imperturbabilmente ottimista (l’amore familiare trionfa sempre e le religioni non vedono l’ora di superare le divergenze per allearsi contro il Male) e profondamente crepuscolare nel disegno di un mondo dominato dalla logica dello stupro (l’origine dello stregone) e dalla più tetra indifferenza, un orizzonte in cui i giocattoli della modernità (le foto, il binocolo) sono misera preda di forze antiche quanto la Terra. La scomparsa cui allude il titolo non riguarda solo le giovani donne avviate alla prostituzione, ma una figura paterna che è, per Maggie e le sue figlie, un ricordo fatto di rimpianto e di rancore: sarà la morte a spezzare l’incantesimo bifronte, liberando le donne dall’ombra di un idolo (da troppo tempo) infranto.