TRAMA
Astro nascente della Archer Daniels Midland, multinazionale dell’industria agroalimentare, Whitacre diventa improvvisamente informatore ai danni della società per cui lavora.
RECENSIONI
Il grande bluff
Come spesso accade con Steven Soderbergh, sembra divertirsi più lui del pubblico. Siamo quindi più dalle parti della serie “Ocean’s” che delle sperimentazioni tipo Bubble, o anche di certo cinema impegnato (Traffic, Erin Brockovich - Forte come la verità) che lo ha visto trionfatore agli Oscar, acclamato dalla critica e beniamino degli spettatori. La storia, pare incredibilmente tratta da fatti realmente accaduti, è quella del dirigente di una multinazionale agroalimentare che diventa un informatore dell’F.B.I. ai danni della società per cui lavora. Il tutto a causa di un disturbo bipolare della personalità, e di una dose insana di mitomania, attraverso un gioco di bugie che dura svariati anni in cui le menzogne si moltiplicano a livello esponenziale fino a un inevitabile punto di non ritorno. La resa dei conti, troppo a lungo procrastinata, sarà per forza di cose dolorosa. Soderbergh pare più interessato al lato comico della vicenda che a quello thriller e drammatico e infatti il film scivola con relativa fluidità rimbalzando da una bugia all’altra al ritmo dell’ottima colonna sonora, molto seventy (tanto per chiarire i modelli di riferimento), di Marvin Hamlisch. Il problema è che si fatica a trovare plausibili gli sviluppi e l’aria scanzonata che si respira non favorisce il coinvolgimento in una vicenda tanto ispirata al vero quanto oggettivamente assurda. È vero che spesso la realtà supera la fantasia, ma il taglio ludico scelto da Soderbergh opta per la scorrevolezza, glissa sulla verosimiglianza, non approfondisce granché e punta tutto sull’escalation di bugie del protagonista, alla lunga non poi così irresistibili. Lo stile adottato non giova al risultato anche a causa della prevedibilità del racconto, che procede per tappe dal poco valore aggiunto nella loro insensata scansione, e di un Matt Damon volenteroso ma non così in parte. L’attore americano ingrassa 20 chili (alla luce di ciò che si vede non bastava una pancetta posticcia?), si cala quindi nel grigiore e nella complessa psicologia del personaggio con indubbia aderenza fisica, ma risulta meno problematico, e anche accattivante, di quello che il genere presupporrebbe. Di lui, alla fine, sappiamo ben poco, siamo solo testimoni dei suoi pensieri fuori campo e del suo gioco al rialzo nel mentire, cosa che può far sorridere per un po’ ma fatica a reggere tutto il peso del film.
So there
Soderbergh manipolatore come Mark Whitacre, (auto)autoreferenziale nel distrarsi dal più che collaudato dualismo autoriale (commerciale vs indipendente), incosciente (ne siamo certi?) nell’incarnare l’aura di una Giustizia (l’Aquila) che, a suo modo, risulta figlia di una clamorosa frode a monte (il Sistema) e a valle (lo Spettatore). Tutto è spudoratamente chiaro (?) fin dai titoli di testa e noi ne rimaniamo da subito intrappolati. La valigetta in cui si nasconderà il fatidico registratore ci viene introdotta con il dettaglio della sua combinazione, rigorosamente oscurata. Lo scorrere del nastro, con un alquanto probabile registrazione ( a noi non è consentito ascoltare il contenuto dal momento che la musica extradiegetica incombe) e trascrizione, limitano da subito la nostra focalizzazione. Questo rimando al dispositivo filmico prefigura in maniera piuttosto chiara la nostra impossibilità a decifrarlo. Più che la denuncia di consumo, al regista interessa far vacillare il nostro punto di vista, impedendoci un’accomodante presa di posizione sul protagonista (certamente etica, ma soprattutto funzionale).
Whitacre è il motore dinamico della narrazione, mette in scena le (virtuali) situazioni, detta i tempi e rielabora il tutto in maniera camaleontica, a seconda degli effetti/conseguenze delle sue menzogne. L’origine nasce dal suo simularsi, da una schizofrenia che affianca una lucida e clinica intenzionalità da medio borghese (uno spiazzante sogno americano a mo’ di lista della spesa) a un sentito ed emotivo ritratto umano, fatto di ansie, preoccupazioni e spinte morali; una sindrome bipolare che si sviluppa su due differenti livelli enunciativi, il primo mediante una voce over, il secondo mediante una voce in. Quello che a primo avviso può sembrare un rapporto di verità/apparenza (la fraudolenta recitazione, utile socialmente, nasconde in realtà una mente calcolatrice e individualistica) trova presto un vicolo cieco. Whitacre è difficile da decrittare, rimane una prospettiva in cui l’artificio verte in se stesso e lo inghiotte. L’autosufficienza della sua natura, scardinata (e scardinabile) da ogni referente reale (e fìnzionale), vive di una totale inconsapevolezza. Ciò che gli sta veramente a cuore è la (auto)rappresentazione (istintivamente pone il microfono sul lato sbagliato della cornetta del telefono): dietro di essa nulla che sia possibile e degno di nota.
Illuminante le due sequenze in cui Mark fa da talpa. Nella prima il disvelamento delle politiche criminali delle industrie fallisce, mentre nella seconda tutto va secondo previsione. Il motivo della riuscita non è dovuto tanto al contenuto della conversazione (anche nel primo caso gli elementi per incriminare la ADM e l’AGIMOTO ci sono), ma alla collocazione di Mark. Mentre nella prima seduta l’infiltrato è in riunione intorno ad un tavolo, con la valigetta vicino e filmato dalla telecamera nascosta dell’FBI (fondamentale è il temporaneo difetto nel funzionamento del registratore), nella seconda esce dal campo di quest’ultima ed esorta uno dei suoi colleghi a esplicitare che l’accordo è stato trovato. E’ evidente come Mark sia elemento manipolatore e non manipolabile.
Un’altra biografia con la realtà che supera la finzione, un altro Inventore di Favole, per una sorta di moda a Hollywood: vedi anche Hoax e Prova a Prendermi, tutte storie vere di truffatori incastonate in commedie drammatiche. Il Mark Whitacre ritratto nel romanzo di Kurt Eichenwald è davvero sfuggente, ma il miracolo dell’ottima sceneggiatura di Scott Z. Burns e della pellicola di Soderbergh, che solo in apparenza rientra nella sua vena di genere alla Ocean's Eleven o Erin Brockovich (stesso “scandalo” aziendale), è che assume la soggettiva del personaggio, con l’ottima idea “bipolare” di un Io narrante che infila considerazioni e aforismi completamente avulsi dal contesto, contribuendo a confondere le idee. Fino a metà del film non saremmo in grado di dire se Whitacre è un eroe, un emerito cretino, un insicuro o un maestro burattinaio. E non lo scopriremo mai, mentre le sue azioni, anzi il suo non-detto, si rivela come un colpo di scena, lasciandoci basiti insieme alle forze dell’ordine. Soderbergh applica alla commedia il suo amore per le trame labirintiche (in elucubrazioni e azioni), rendendola assolutamente particolare, splendidamente confusa e incoerente, con un tono ilare-assurdo, ben esemplificato dall’uso di musiche buffe a tutto spiano. La fotografia è variopinta ma offuscata da un velo, a specchio di una trama pittoresca ma insondabile. Grandissimo Matt Damon.