TRAMA
Una famiglia trascorre il suo Natale in Thailandia. Arriva lo tsunami…
RECENSIONI
Che fine ha fatto il film catastrofico? Per qualche anno se ne sono perse le tracce: se la deriva parodistica di un genere corrisponde solitamente al suo esaurimento, con il bulimico Disaster Movie (2008) dei perniciosi Friedberg &Seltzer si è data una notevole spinta verso la fossa; forse il colpo di grazia è arrivato dall'ipercatastrofico 2012 di Roland Emmerich (2009), con una sceneggiatura talmente risibile e un tale inventario di variegati disastri da risultare, esso stesso, parodia involontaria. Genere d'evasione per eccellenza, ma con un occhio alle paure radicate nell'immaginario collettivo, il catastrofico forse non era l'evasione giusta per un pubblico alle prese con la Crisi (mentre il supereroico ancora fa sfracelli)? Fatto sta che sono poche le sequenze da disaster movie viste dal 2008 in poi, e comunque legate a eventi realmente accaduti, non a catastrofi immaginarie: l'uragano Katrina nella cornice narrativa di Lo strano caso di Benjamin Button e lo tsunami nell'Oceano Indiano, fulcro di uno dei segmenti di Hereafter. Non a caso, i due medesimi disastri naturali, capaci di ammutolire l'immaginario hollywoodiano, da cui prendono le mosse oggi due film di segno opposto: Re della terra selvaggia e The Impossible.
Quest'ultimo soltanto è ascrivibile al genere catastrofico classico, ma con un saldo e ribadito appiglio alla realtà: le parole “tratto da una storia vera” solcano lo schermo prima di ogni cosa, infatti il soggetto del film è quanto realmente vissuto da una famiglia spagnola in vacanza in Thailandia e scampata al devastante maremoto; fra le comparse sono perfino presenti sopravvissuti dello tsunami del 2004. Lo statuto di storia vera permette al catalano Juan Antonio Bayona di restringere il campo visivo sulla tragedia fino a comprendere solo i 5 membri della famiglia: padre, madre, tre bambini fra i 12 e i 5 anni. Nessun altro punto di vista è dato sulla catastrofe, né altri personaggi sono coinvolti, se non in misura minima; le dimensioni stesse dell'evento sono inafferrabili, viste dall'interno. L'elemento catastrofico è quindi declinato in forma famigliare, intimista: una scelta precisa e non priva di coraggio, che trasforma un evento di proporzioni enormi, che ha fatto centinaia di migliaia di vittime, in dramma raccolto e racchiuso sui destini di 5 individui. Ancora più parcellizzati quando l'onda anomala spezza il nucleo, creando due distinte linee narrative: nella prima parte la madre (Naomi Watts) con il primogenito (Tom Holland), nella seconda il padre (Ewan McGregor) con i più piccoli.
Bayona spara le cartucce migliori nella prima mezz'ora di film: la sequenza dello tsunami è realizzata con mezzi spettacolari e un notevole senso della tensione, la macchina da presa si sposta sopra e sotto il pelo della valanga d'acqua per mostrarci il corpo martirizzato di Naomi Watts, pupazzo in balia della forza della natura, urtato e trafitto da oggetti contundenti con esiti che sfiorano il gore. Indugiando, fino a rendere disturbante il suo sguardo, sulle ferite e sulla fatica sovrumana della figura materna, Bayona vira la catastrofe all'horror, e dalla sua opera prima The Orphanage (un horror, appunto) mutua il viscerale legame madre/figlio che fa la forza della prima metà di The Impossible. Quando l'azione si sposta in ospedale, anche la coppia viene divisa e il regista scivola su toni più tipicamente hollywoodiani quando resta in scena da solo l'enfant prodige Tom Holland, un bimbo che pare uscito da un film di Spielberg e per qualche sequenza si mangia lo schermo. La pellicola affronta un crollo verticale quando la narrazione si sposta sull'altro genitore, un lacrimoso Ewan McGregor cui spetta l'ingrato compito di dare vita a tutte le sequenze più retoriche e ricattatorie dell'opera, che coinvolgono bambini molto piccoli e addii strappalacrime, dialoghi intercontinentali ad alto tasso di pianti, una sbrigativa classificazione dei compagni di sventura in “cattivoni” o “cuori d'oro” a seconda della loro disponibilità a prestare un telefono cellulare. Se la prima parte aveva sfoderato un'interessante rilettura del genere catastrofico in chiave minimale, quasi claustrofobica pur essendo in spazi apertissimi, la seconda parte apre i rubinetti del buonismo trasformando l'opera in una versione per famiglie, e con ridotti intrecci narrativi, di un film di Iñarritu. Come una bassa marea, quando le acque dense della tensione si ritirano, The Impossible resta all'asciutto e mostra i detriti di una sceneggiatura di esilità spaventosa: se è parte del canone del disaster movie che i personaggi non godano di particolare scavo psicologico, i membri della famiglia di Bayona non godono nemmeno di un rigo di caratterizzazione. Se non del riverbero di quella scritta, in apertura: “tratto da una storia vera, una storia vera”. Troppo poco, per una narrazione che cocciutamente si ostinava a raccontare il catastrofico senza uscire dal nucleo famigliare.
Se non altro, il cinema spagnolo riesce ad attrarre divi internazionali: ma Bayona non ha l’alibi della sceneggiatura di scarto proposta da Hollywood ad un regista straniero, nel momento in cui si imbarca in tale bruttura strappalacrime. La cosa ha dell’incredibile, anzi dell’impossibile. I titoli di testa annunciano che è una storia vera vera (dirlo una sola volta non basta più, sono rimasti in pochi a crederci) e, sui titoli di coda, vengono mostrati i protagonisti originali, spagnoli qui americanizzati per esigenze commerciali. Basare un film sulla tragedia del 2006, in siffatti modi, diventa mera speculazione sui cadaveri: la parte iniziale con famiglia felice da Mulino Bianco possiede una scrittura senza neanche la pelle (l’aggettivo 'epidermica' la sopravvaluterebbe); a seguire lo “spettacolo” catastrofico, sottogenere sempre in voga che fa audience e tensione, con la “grande onda” sicuramente d’effetto (appena vista in Hereafter, che in confronto è un capolavoro “morale” perché non specula ma utilizza la tragedia a fini drammatici, per parlare davvero di altro): Bayona, da buon regista horror, è crudele con lo spettatore e con le sue vittime (quasi esclusivamente la famiglia Bennett, come se nessun altro fosse stato colpito) ribaltate, ferite, doloranti. Gira nelle location originali (la sequenza è costata un anno di lavoro), i tecnici degli effetti speciali hanno ricostruito in scala il resort e usato acqua vera per un maggior realismo non digitale (i detriti, però, sono disegnati). L’incredibile-impossibile, però, è che il regista non ha alcuna intenzione di fare un film di genere, cui si perdonerebbero tante velleità, ma è interessato al lacrimevole melodramma familiare e indulge, per due ore, su melensaggini, patemi, lacrime, urla, spaventi, abbracci, rimorsi, crescite individuali (il piccolo Lucas) e così via: errore estetico-etico madornale, perché non si può cavalcare l’onda prima e poi (rin)negarla sperando di essere presi sul serio nel momento in cui ci si concentra esclusivamente sul dolore delle sue vittime. Le due cose cozzano: in una c’è il piacere morboso-voyeuristico in cui la sospensione di incredulità non esiste, se non a livello superficiale, per effetti di suspense-sorpresa; nell’altra la sospensione è necessaria e il realismo giustificato, ma non funziona se concentrato su personaggi unidimensionali, senza conflitti e con psicologie azzerate. A riprova delle intenzioni mal riposte dell’autore, lo tsunami torna in flashback ed è oggetto di qualche rewind: si spera in un sussulto nella calma piatta del film madre-figlio-coraggio, ma denuncia solo e apertamente la scorretta operazione. Impossible su impossible: è stato record di incassi in Spagna.