TRAMA
In Italia, durante la Grande Guerra, il vedovo falegname Geppetto perde il suo amato figlio Carlo a seguito di un bombardamento aereo. Geppetto seppellisce una pigna, che aveva trovato Carlo, vicino alla tomba del figlio. Sebastian il Grillo si stabilisce nell’albero di pino cresciuto dalla pigna di Carlo, che viene in seguito abbattuto da Geppetto, ubriaco e furibondo, e fatto a pezzi a casa sua per costruirsi una marionetta di legno da trattare come un nuovo figlio…
Vincitore dell’Oscar per il miglior film animato.
RECENSIONI
È il 1917 quando Segundo de Chomón, pioniere del cinema muto di stanza in quegli anni a Torino, scrive e dirige La guerra e il sogno di Momi. Qui il piccolo Momi, giovane rampollo di una famiglia italiana, somatizza le inquietudini della prima guerra mondiale – che vede il padre al fronte – attraverso vividi sogni, in cui i suoi giocattoli prendono vita. Il soggetto non è originalissimo: già Riccardo Cassano e Gennaro Righelli avevano, un paio di anni prima, lavorato sul giocattolesco come veicolo perfetto per raccontare cinematograficamente la guerra come fenomeno psichico, che colpisce a sintonie variabili il mondo dell’infanzia e quello degli adulti. Ma de Chomón, con il suo mediometraggio, fa qualcosa di più, investendo le sue energie nell’animazione dei sogni di Momi, realizzata mediante “ripresa a passo uno”, che poi è il modo tutto italiano di chiamare la stop-motion. Inizia quindi, forse, a rendersi più chiaro come mai una recensione dedicata a Pinocchio di Guillermo del Toro inizi con una menzione a un film di oltre cent’anni più vecchio. Viene da chiedersi se, chissà, del Toro abbia visto il film di de Chomón, dal momento che il suo (di Guillermo del Toro è proprio nel titolo del film, ma ci torneremo) Pinocchio, animato a sua volta a passo uno, è trasportato nell’Italia della guerra mondiale, non la prima bensì la seconda, divenendone filtro fanciullesco via via capace di rivelarne gli aspetti più perversi e morbosi. Ma andiamo con ordine.
Questo Pinocchio si colloca nella pinocchio-mania degli ultimi anni (ne avevamo parlato, purtroppo in maniera decisamente meno entusiastica, già qui) fra le primissime posizioni. Il film è aggraziato oltremodo, finissimo, stratificato, allo stesso tempo una delizia per gli occhi e un sollucchero per la mente. Già, perché se chi si imbarca in una pinocchiata (così si usano chiamare le storie post-pinocchiane con protagonista il Nostro) dovrebbe avere ben chiaro che oramai la storia di base della marionetta la conoscono tutti e in tutte le salse, del Toro dimostra come lo sviluppo della fabula pinocchiana, tanto rodato da assurgere all’archetipo, possa in realtà essere niente più che l’innesco di un intreccio sempre nuovo, o almeno rinnovato. Come a dire che la storia del bambino di legno si può spostare nello spazio e nel tempo per farsi allegoria fresca di volta in volta, in base allo Zeitgeist di riferimento.
Così il regista messicano mantiene dei tratti e ne narcotizza degli altri: ok per l’Italia, ma siamo ora nel pieno del Ventennio (e l’Italia stessa è finalmente resa con una certa consapevolezza); il gatto e la volpe, scherani del temibile Mangiafuoco, sono scomparsi e sussiste invece una strana ed efficace crasi di sgherri e mandante nel Conte Volpe, ancora una volta avido direttore circense, che però difende i suoi interessi non a suon di violenza ma di contratti vincolanti; il grillo parlante, qui Sebastian, è sempre uno spiantato, ma questa volta non assume il ruolo della coscienza bacchettona, quanto piuttosto di componente emotiva del burattino (risiede laddove ci sarebbe il posticino per il cuore), e ne prende di santa ragione per buona parte del film (prova a dare ogni tanto qualche imbeccata morale, ma programmaticamente finisce schiacciato, come nel bellissimo momento in cui sta iniziando a cantare e Pinocchio gli sbatte noncurante la porta di casa addosso); il paese dei balocchi, utopia-distopia di impronta pre-deamicisiana pensata per addomesticare il legittimo desiderio dei bambini è ora un campo militare per giovani balilla, dove potranno, “giocando”, imparare l’arte di morire per la patria. Attenzione, non è cosa da poco; è il dark side del ludico che se nell’originale rappresenta i pericoli del “non obbedire” qui è invece baluardo di un inno alla disobbedienza, quando il mondo degli adulti (cioè, più generalmente, di chi sta sopra) ha perso il senno. E via discorrendo.
Ne emerge un Pinocchio apocrifo, e che pure mantiene saldi i necessari snodi di partenza: nato per l’incanto non già di una Fata Turchina, quanto piuttosto dello Spirito del Bosco, creatura composta dagli occhietti fantasmatici che abitano le selve (molto, anche nel design, à la Miyazaki, qualcosa come i nerini del buio de Il mio vicino Totoro, 1988, in effetti). È un moccioso, un po’ stupido come sempre, e incontra Lucignolo – qui in una versione più approfondita (in conflitto con il padre fascista, che lo considera uno smidollato). Naturalmente finisce nel ventre della balena (forse il passaggio meno riuscito del film, in termini di spessore allegorico). E attorno a questi elementi vengono appese proprietà semantiche specifiche: Pinocchio infatti attraversa l’Italia con il Conte Volpe, un’Italia martoriata dal regime mussoliniano, vieppiù sbeffeggiato in maniera straordinaria e assolutamente godibile (la scena dello spettacolo di fronte a Sua Eccellenza è favolosa); nella sua traversata cresce o meglio, finalmente, è costretto a crescere, prendendo coscienza delle fragilità del mondo degli adulti.
Alla fine, tutto si conclude, come sempre, per il meglio, ma del Toro corona il burattino con il suo sguardo umbratile, lavorando su “quello che accadde dopo”, e che solitamente viene lasciato da parte. Già, perché il burattino fa il bravo, salva Geppetto dalla balena, e viene premiato – attenzione – per avere infranto una regola (non classicamente pedagogico, in effetti). Ora può diventare un bambino vero, che non significa in carne ossa, ma semplicemente mortale. Rimarrà com’è nelle sembianze, ma sarà costretto a vedere Geppetto, il grillo, la sua amica scimmia Spazzatura, morire, uno dietro l’altro, e a qualche punto che non ci è dato sapere, anche lui ci saluterà. La presa di coscienza della fine, questo, sussurra malinconicamente Pinocchio di Guillermo del Toro, è diventare grandi. Il grillo stesso, narratore onnisciente, perisce, pur continuando a narrare la storia post mortem, in una delicatissima prosopopea.
Veniamo ora allo stile. Lo stop-motion di del Toro è, semplicemente, sublime. Ogni inquadratura urla al capolavoro. Non esageriamo. Il grado di dettaglio, la fluidità tipicamente incespicante del movimento “a passo uno” (che in fondo, se ci pensiamo bene, incorpora l’idea stessa di cinema – come sequenza di foto che tradisce chi guarda suggerendo un’idea di movimento – meglio del classico live action), la capacità di questa tecnica di rendere la matericità ruvida del legno, concorrono a fare di questo film, in sostanza, uno schiaffo a buona parte delle recenti produzioni animate dagli studi più blasonati (non si faranno nomi, ma si potranno immaginare). C’è poi da dire che la stop-motion, per motivi forse complessi, per cui espressione e contenuto sembrano non essere più facilmente così distinguibili, parrebbe ideale a veicolare storie agrodolci, non immediatamente manichee, un poco oniriche o comunque opache, senz’altro malinconiche. Non bastasse Momi, allora pensate alle meraviglie di Jan Švankmajer (alcuni suoi lavori assurgono oggi a una ossimorica “viralità di nicchia” online, proprio per ragioni di tipo tecnico), ai vezzosi wesandersoniani Fantastic Mr. Fox (2009, uno dei suoi film migliori?) e L’isola dei cani (2018), alla cupa Anomalisa di Charlie Kaufman (2015). Sì, certo, ovviamente anche alla collaborazione Burton-Selick di Nightmare Before Christmas (1993) e a quanto ne è poi (con)seguito, come il carinissimo Coraline e la porta magica (Selick 2009).
Ecco, qual è la cifra comune di film così diversi? Il fatto che una tecnica non è mai semplicemente una tecnica, ma anche una indicazione prospettica, capace già di ammantare di un certo significato gli elementi che poi saranno effettivamente narrati(vi). Tant’è che in effetti oltre all’humus della stop-motion del Toro non lesina poi in quella regia che più gli è confacente, trasformando il film, a tratti, in un vero e proprio horror. Si pensi alla stupefacente sequenza in cui, ubriaco e triste per l’irrimediabile scomparsa del figlio Carlo (vittima di un bombardamento), Geppetto decide di farsi un figlio nuovo, a partire da un pino (nato proprio laddove venne sepolta la pigna in onore del pargolo deceduto). In effetti, sembra quasi una versione per ragazzi de La donna che visse due volte (Hitchcock 1954) mescolata con un rito voodoo in stile La bambola assassina (Holland 1988).
Tutto qui è narrato in maniera perturbante: dalla finestra pioggia e fulmini di tregenda, le inquadrature sbilenche, Geppetto fuori di sé che utilizza l’accetta in maniera inconsulta; ne vediamo addirittura, con taglio espressionista, l’ombra che disumanamente sbrandella il ceppo. Quando poi Pinocchio il mattino dopo nasce, con un design eccezionale (come tutto il resto), questo ha movenze orride, prima di prendere confidenza del suo corpo. È uno scherzo della natura, un Frankenstein nato da una notte alcolica e solitaria, uscito da un incubo. Ecco dunque decostruito (e ricostruito) il mito di un Geppetto perfetto, e anche incupita l’atmosfera generale, nei toni che in molti chiamerebbero – in maniera forse un po’ stucchevole – della “fiaba dark”. D’altronde, qui addirittura Pinocchio visita a più riprese l’oltretomba, in compagnia di conigli scheletrici e di una sfinge, sorta di dea della morte contraltare della già alternativa e alienoide Fata Turchina, che lo rimanda indietro fra i vivi. E i vivi, a loro volta, fanno del loro meglio per rispedirlo fra i morti un paio di volte, giacché le insidie pinocchiane classiche sono qui potenziate dal contesto fascista, descritto con quasi commovente leggiadria. I paesi man mano visitati da Pinocchio sono tappezzati di propaganda mussoliniana, elemento di sfondo, letteralmente nel background, che progressivamente si pone in primo piano, da un lato elegantemente satireggiato (prima che dalla spassosissima canzone in cui Pinocchio definisce il Duce sostanzialmente come un coprofilo, anzitutto dal Duce stesso che arrivato allo spettacolo dichiara, sottilissimamente, “mi piacciono i burattini”), da un lato mostrato nelle sue pieghe più oscure: l’infima collusione fra Chiesa e regime, il podestà così indottrinato da obbligare il figlio Lucignolo a sparare al suo amico Pinocchio, l’invito in alcune calibrate occasioni a mentire – eresia massima nell’universo pinocchiano – quando serva come proverbiale “bugia a fin di bene” (l’escamotage per farsi starnutire fuori dallo sfiatatoio della balena, l’infrazione del patto metafisico con la Morte per tornare indietro a salvare Geppetto).
Ecco insomma che questo Pinocchio, il Pinocchio di Guillermo del Toro, ha tutte le carte – come quelle dei conigli-Caronte del film – per essere considerato un gioiello. È di del Toro perché vi è naturalmente incastonato il suo sguardo, capace di rivalorizzare l’infanzia dismettendole i panni del costrutto banale (l’epoca di esclusive ingenuità neonatale e verginità morale) e rilevandone anche gli aspetti più cupi, preludio alla crescita e mai del tutto risolti e risolvibili. Ma è anche un Pinocchio di tutti, il Pinocchio che noi siamo, orgogliosamente giocattolesco, nella più profonda, “terribilmente gioiosa” (cit. Geppetto), delle accezioni.