Post-apocalittico, Proibiti

THE BAD BATCH

Titolo OriginaleThe Bad Batch
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2016
Durata119'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio

TRAMA

Una feroce fiaba distopica ambientata in una desolata regione del Texas in cui alcuni reietti della società cercano di sopravvivere.

RECENSIONI


Opera seconda per la regista, statunitense di origine iraniana, Ana Lily Amirpour dopo quel bizzarro campionario kitsch di un film di vampiri in bianco e nero, parlato in farsi e di ambientazione teoricamente iraniana, A Girl Walks Home Alone at Night. Molte sono le analogie con The Bad Batch a partire dalla location marginale, petrolifera, nel film precedente un’immaginaria cittadina persiana, qui il territorio di confine del Texas, il confine del mondo civile che dirada in una terra di nessuno come minacciosamente avvisa il grottesco cartello segnaletico, che non garantisce sulla tutela dell’incolumità di chi si avventura dall’altra parte e si conclude con un lapidario augurio di buona fortuna. Arlen, ragazza dai pantaloncini sgargianti, non si preoccupa più di tanto e attraversa quel confine per finire prigioniera di una comunità di cannibali, che divorano le loro vittime un pezzo anatomico alla volta, amputandoli e tenendoli in catene, in modo da garantirsi una riserva di carne. Sono cannibali previdenti che conservano le provviste di cibo. Arlen riuscirà a fuggire e tornerà, pur menomata, a cercare vendetta.

In comune ancora con il film precedente è la visione femminile. Se la vampira con lo chador di A Girl Walks Home Alone at Night rappresentava la forza femminile repressa della donna iraniana sottomessa, qui abbiamo una ragazza sbarazzina, discinta, che indossa calzoncini colorati o con il simbolo dello smile, un’eroina come la Sposa di Kill Bill. E a essere freak, in The Bad Batch, sono i reietti, i rifiuti della società capitalistica che, spinti dalla fame, possono arrivare a usare le banconote persino per alimentare un falò e arrostire un corvo. Un territorio desertico dove si vive tra lamiere, rottami, carlinghe di aerei residue di qualche incidente, assemblati per costruire abitazioni e villaggi. Come suggerito da una metafora scatologica del film, gli escrementi che vengono asportati via attraverso le condotte fognarie, siamo in una cloaca, in una terra di nessuno, come fosse un mondo postapocalittico, dove vige la legge del più forte, dove o si mangia o si viene mangiati, dove non c’è spazio per i sentimenti nella spietata lotta per la sopravvivenza, dove un coniglietto non può che finire allo spiedo. Ma i rifiuti con cui convive quest’umanità di derelitti, sono anche i rifiuti del tempo, oggetti simbolo dei decenni passati, canzoni, che non hanno più motivo d’essere in un mondo dove vige l’obsolescenza più sfrenata. E così abbiamo il cubo di Rubik, la musica dei Culture Club o degli Ace of Base, e il grande totem con le sembianze di una radio/stereo con tanto di sportellino per la cassetta. Questa è la cifra stilistica camp che la regista si porta dietro dal film precedente, dove invece c’erano Lionel Richie e automobili anni Cinquanta.

“Mi sto chiedendo chi siano i veri cannibali” pensa il professor Monroe di un classico del genere come Cannibal Holocaust. E in The Bad Batch la vera cannibale è lei, la regista che cannibalizza tutto un immaginario cinematografico e restituisce in un pastiche citazionista. Se il primo film era debitore di un cinema in bianco e nero sporco, indipendente, da Jim Jarmusch a The Addiction, qui abbiamo un campionario di feticci cinematografici anni Ottanta, All’inseguimento della pietra verde, La storia fantastica, Mad Max, Ritorno al futuro, Dal tramonto all’alba, i western ed Essi Vivono per le frasi subliminali (che qui però non devono nemmeno essere decodificate). Tutto però è molto superficiale, la storia sembra un debole pretesto per la regista di confezionare le sue illustrazioni. Ma è un’estetica vuota e patinata, un immaginario precotto come uno stinco di maiale confezionato nel sacchetto. Come il precedente, anche The Bad Batch è una produzione Sundance, sinonimo ormai da tempo di un cinema yuppie che vuole sbandierare la sua indipendenza. Tutto torna.