TRAMA
Suburbicon, case a buon mercato e giardini ben curati, è il luogo perfetto dove crescere una famiglia, esattamente quello che stanno facendo i Lodge nell’estate del 1959. Tuttavia l’apparente tranquillità cela inganno e violenza. Questa è la storia di persone imperfette e delle loro scelte sbagliate. Questa è Suburbicon.
RECENSIONI
Suburbicon parte da uno script di Joel e Ethan Coen risalente agli anni Ottanta ed è molto facile individuare quali elementi del risultato finale appartengano ai fratellini: l’inesorabilità del meccanismo (il gioco al rialzo del destino, tra clamorosi errori e fatalità puntualmente avverse: la semplicità della vita, che è semplicità della morte) e la violenza che, sembrando provenire dall’esterno, si scopre, in realtà, avere la sua origine nel focolare domestico (come in Fargo, di cui Suburbicon pare replicare gli antieroi, quasi ne fossero degli iniziali abbozzi - il film con Frances McDormand è del 1996 -). E si comprende invece dove abbia lavorato Clooney: sulla politicizzazione dell’intreccio e sui riflessi d’attualità. Un’attualità perenne, per così dire: alle soglie degli anni Sessanta una comunità rigorosamente bianca farà del “negro” il capro espiatorio dei propri guasti, non diversamente dall’oggi trumpiano che, allo stesso scopo, vuole emarginare le minoranze ed erigere muri. Al regista, insomma, non interessa la teoricità, la geometria glaciale dell’intreccio coeniano, ma valutarne l’impatto su una realtà storicamente individuata, analizzarne il conflitto e concludere che, cambiati i riferimenti temporali, non mutano mai le dinamiche che conducono una società, innamorata di un ideale di comunità, a guardare i problemi dalla parte sbagliata.
Collegato a questo discorso è quello sulle apparenze: il sovvertimento iconico di Matt Damon (il bravo ragazzo americano per eccellenza ricopre il ruolo di uno spietato marito-padre, pronto a tutto per ottenere i suoi scopi) e il doppio ruolo di Julianne Moore giocano, in questo senso, sullo stesso campo. Come Damon/ Gardner Lodge, anche i due personaggi impersonati dall’attrice rappresentano le due facce di una nazione, quella di una madre che invita il proprio figlio a giocare con il vicino di colore, e quella che non si farebbe scrupolo di avvelenare il bambino per il proprio tornaconto. Che la cognata prenda il posto della moglie del capofamiglia diventandone, anche nell’aspetto, un clone, al di là del discorso hitchcockiano, ribadisce l’inganno di ogni apparenza, come lo stesso volto (quello bianco degli Stati Uniti) possa celare anime molto distanti o contrapposte. Discorso ribadito nella rivelazione - che è citazione ancora hitchcock-freudiana (la scoperta del cadavere della madre nella cantina di Psycho) - che i due amanti hanno un rapporto sado-maso. Metafora troppo facile? E allora? Tutto vuole essere semplice e leggibile in questo film: Suburbicon è fin dalla prima scena un sobborgo che, dietro la patina di serenità e ordine, cela malessere, violenza, prevaricazione. E una dormiente caccia alle streghe. Una città-set di una farsa, un teatro (della crudeltà) in cui ogni abitante ha un ruolo prestabilito da rispettare.
Ai confini con la storia principale il film ci dice come la cultura del sospetto e preconcetto, che oramai si è impossessata delle nostre menti, operi paradossalmente anche al contrario: questo quartiere, turbato dalla presenza dei neri, non lo sembra affatto dagli efferati delitti che si consumano in maniera palese dentro le sue case e sulle sue strade; allora l’immagine simbolo è quella di Damon, che corre sul viale di Suburbicon, costeggiato dalle villette con giardino: un uomo bianco, indisturbato, con la camicia imbrattata di sangue (un disegno stilizzato della stessa è stato scelto, non a caso, per uno dei poster americani del film).
La sesta regia di George Clooney, la prima senza stare anche davanti alla macchina da presa, ripesca una sceneggiatura del 1986 non irresistibile dei fratelli Coen (è da subito prevedibile, ad esempio, chi siano i veri mandanti dell’omicidio), prima maniera nell’inscenare in eccesso il noir Blood Simple: l’attore/produttore pare integrarla, per quanto palesemente appiccicata, con la traccia sul razzismo, ispirata alla vicenda di William e Daisy Meyer, che si trasferirono nel 1957 a Levittown in Pennsylvania scatenando le ire del vicinato bianco. Una traccia che, se soddisfa la sua comprovata vena d’impegno civile, è abbastanza semplicistica nel mostrare come il pregiudizio verso il colore della pelle dimentichi dove alberghi il vero orrore. Il thriller, a parte qualche dinamica risaputa, paradossalmente funziona nel momento in cui Clooney non vuole o non sa replicare quel misto di violenza e grottesco assurdo dei Coen, facendo sì che il crescendo di sangue sia anche inquietante (terribile la scena al tavolo della cucina e dal punto di vista del bambino, con il padre che lo minaccia di morte) e offrendo la scena migliore, sulla carta grottesca invece efficacemente scioccante, quando il sicario di Glenn Fleshler accosta Damon in auto, lo minaccia e viene investito da un camion. Racconto e temi banali, quindi, ma con resa discreta anche perché agìta da una serie d’attori di prim’ordine, compresa Julianne Moore in (breve) doppio ruolo che torna Lontano dal Paradiso.