Azione, Drammatico, Fantascienza, Recensione

SNOWPIERCER

Titolo OriginaleSnowpiercer
NazioneCorea del Sud/U.S.A./Francia
Anno Produzione2013
Durata126'
Tratto dada Le transperceneige di Jacques Lob, Benjamin Legrand, Jean-Marc Rochette
Fotografia
Montaggio
Scenografia

TRAMA

2031, pianeta Terra. Da 17 anni ormai i sopravvissuti a una catastrofe ecologica che ha ricondotto l’intero globo terracqueo a una nuova era glaciale viaggiano su un treno rompighiacchio, lo Snowpiercer, sorta di arca di Noè del terzo millennio, nel quale vige un rigido sistema classista. Un gruppo di disperati degli ultimi vagoni, sfiancati da stenti e soprusi e capeggiati dal determinato Curtis, si ribella e decide di attraversare il mezzo per arrivare alla locomotiva presidiata dal misterioso Wilford.

RECENSIONI

Quel che resta dell'umano. Film dopo film, è ciò che Bong strenuamente ha sempre cercato di rintracciare, che fosse tra i caseggiati della black comedy d'esordio Barking dogs never bite, nelle pieghe noir di un'indagine senza sbocchi in Memories of Murder, tra le acque limacciose che attraversano la Seoul mostruosa del prodigioso The Host o negli anfratti disperati del crudele mélo materno Mother. In quest'ultimo Snowpiercer il suo sguardo si fa, se possibile, ancor più nero e universale, sollevandosi dalla contemplazione del tessuto sociale coreano disintegrato, dalla perlustrazione delle cicatrici presenti nel corpo nazionale, per spostarsi nel territorio della fantascienza distopica, dell'apologo post-apocalittico sulla perpetuazione del potere e sul prezzo da pagare per la preservazione della specie. Una nuova era glaciale quale ghignante contrappasso del rimedio fallito al surriscaldamento globale, un treno-mondo rigidamente diviso in un sistema di compartimenti-classi, un itinerario ad anello che attraversa - e all'occasione frantuma - ciò che è diventata la Terra, un sudario di ghiaccio. Nonostante lo spirito di rivalsa degli ultimi messo in scena, malgrado la pianificazione di una rivolta di classe, l'uomo qui finisce per rispondere principalmente a se stesso, ai suoi appetiti residui, alla sua sete di vita, alla sua pulsione di morte. L'individualismo s'impone come condizione esistenziale disperatamente inevitabile. Tra corpi smembrati e anime piagate, sopravvivenza cannibale e annichilente realpolitik, lo Snowpiercer è un sepolcro di piombo in eterno - e quindi illusorio - movimento verso il nulla.

È bene sgombrare il campo da un equivoco: Snowpiercer non è il "film americano" di Bong, il presunto lavoro su commissione nel quale il regista si piega ai dettami dell'industria hollywoodiana addomesticando se non snaturando la sua poetica. Coproduzione tra Corea del Sud, Stati Uniti e Francia (tra i produttori figura anche Park Chan-wook), libero adattamento da un fumetto francese, Le transperceneige (che fornisce l'assunto di base e alcune idee visive, grosso della trama e costruzione dei personaggi essendo creazione del regista e del cosceneggiatore Kelly Masterson, già autore di un altro script nerissimo, quello del lumetiano Onora il padre e la madre), girato in Repubblica Ceca da una troupe multietnica, interpretato da un cast in gran parte anglofono che vede però anche la fondamentale presenza di Song Kang-ho, attore feticcio del regista nonché uno dei massimi rappresentanti del cinema sudcoreano, e del villain Vlad Ivanov, volto noto a chi frequenta il cinema rumeno recente, Snowpiercer è un'opera sì meticcia ma fortemente voluta da Bong, che dialoga anche col cinema hollywoodiano più spettacolare ma se ne discosta per il furore nichilista e il ritmo non frenetico (cosa che ha causato attriti col distributore americano, Harvey Weinstein, che avrebbe voluto mandarlo nelle sale statunitensi accorciato di 20 minuti). Bong qui lavora col genere e nel genere più di quanto avesse fatto nel caleidoscopico e incendiario The Host, il titolo della sua filmografia al quale Snowpiercer è più facilmente accostabile per via della formula "blockbuster d'autore" e della vena catastrofica, sporcandosi le mani con déjà-vu e cliché del caso, rendendo l'allegoria sociopolitica limpida e palese fin da subito e convertendola in azione. Se il racconto su un piano di mera coerenza narrativa può risultare stridente (questioni irrisolte, anelli consequenziali che non tengono fino in fondo, credibilità messa in diversi punti a dura prova), è anche vero che Bong nei suoi lavori precedenti aveva già mostrato come la logica narrativa spesso e volentieri non spieghi la realtà. Solo l'atto della visione può aiutarci a diradare il buio.

In una struttura a quadri che sembra parodiare la progressione videoludica combinandola con una sorta di marcia a tappe della disillusione rivoluzionaria, la regia disinvolta di Bong sconfigge l'ovvietà claustrofobica dominando con agili movimenti di macchina gli spazi chiusi e ristretti del treno, coreografando feroci scontri all'arma bianca con una sensibilità luministica e musicale che non intacca la tragicità di fondo, plasmando con perizia un ecosistema blindato sorvegliato da un rigido regime poliziesco. Quello è il mondo, per alcuni è persino l'unico mondo conosciuto, l'esterno è solo ricordo che sbiadisce nel gelo indistinto, modellato in una CGI quasi rudimentale. Dalla sudicia stia neodickensiana dei compartimenti di coda fino agli agi oppiacei e al baccanale ottundente di quelli di testa, di vagone in vagone (lo sguardo dello spettatore coincide con quello del drappello di ribelli) si rivelano i tasselli di un disegno crudele, costellato di saggi di quella visionarietà bonghiana che la "pesantezza" della narrazione sembra qui frenare: l'attraversamento stupito dell'acquario, oasi liquida incastonata nel metallo; la scoperta del sushi, lusso insensato consumato stolidamente di fronte a un paesaggio di morte diventato candido sfondo hi-tech; la creazione dell'ideologia e l'indottrinamento dei fanciulli in una carrozza-scuola dalle tinte pastello tra maestrine incinte, smorfiose canzoncine propagandistiche e filmati didattici. E a lacerare l'umor cupo, con quelle rotture di tono diventate ormai marchio espressivo del regista, graffi grotteschi rivelatori dell'assurdo che trovano apice vistoso in una Tilda Swinton sfrontatamente sopra le righe, marionetta ridicola del potere, incarnazione guasta di una burocrazia ottusa, mastino da guardia sdentato.

Più Brecht che Marx. La marcia proletaria contro lo sfruttamento padronale perde progressivamente vigore e convinzione, si attarda nelle carrozze delle classi agiate, e arrivati alle porte della sala macchine la conta dei superstiti è eloquente: nessuno è salvabile, tutti sono sacrificabili, ciò che conta è il mantenimento del sistema. La verbosità didascalica, trappola nella quale Bong purtroppo inciampa, attenua la carica ambigua e potenzialmente disturbante dell'ultimo segmento: Wilford, demiurgo umano troppo umano a metà strada tra un inflessibile mago di Oz e il Christof di The Truman Show (e impersonato dallo stesso Ed Harris), tecnocrate schiavista ma forse anche autentico filantropo, mette in luce l'aberrante corto circuito di un mondo che può esistere e resistere solo se tutti stanno al proprio posto e se la coda è fondamentalmente d'accordo con la testa, l'immobilismo sociale diventando così cruciale necessità, il libero arbitrio una chimera e un pericolo. Se testa e coda collaborano, il sistema anche se ribaltato rimane immutato. La rivoluzione, ennesimo ingranaggio della macchina, rivela così il suo statuto di falso movimento. Paradosso atroce e soffocante che solo l'anarchia può spezzare, quell'anarchia che non a caso trova il suo beffardo correlativo oggettivo nel Kronol, droga sintetica dalla carica luddista, autentica via di fuga antisociale, sostanza allucinogena e infiammabile che apre letteralmente le porte della percezione. Ripiombata nello stato di natura, l'umanità torna ad essere un'ipotesi, due piccoli segni in una sterminata pagina bianca. Un orso polare ci guarda, indifferente alla nostra sopravvivenza come alla nostra estinzione.

Il successo del blockbuster The Host apre le porte internazionali a Joon-hoo Bong che, con capitali nazionali, americani e francesi, gira negli studi di Praga un altro film di genere fantastico, reiterando quel mix deleterio di considerazioni filosofiche, effetti speciali e commedia. Ma, questa volta, gli guarda le spalle l’idea del fumetto francese "Le Transperceneige", schizzato da Jean-Marc Rochette (suoi i disegni dell’artista della sezione di coda) e ideato dallo scomparso Jacques Lob (si trae spunto dall’albo uscito a puntate tra il 1982 e il 1983): la trasposizione cinematografica, infatti, si regge quasi tutta su tale testo, intrigando con un colpo di scena finale che specula su logiche divine e/o della Natura, fra crudeltà necessaria e primato della sopravvivenza dell’ecosistema. Onore a Bong che ha ampliato questi ingredienti, combattendo con i denti contro la co-produzione americana (ovvero i soliti Weinstein, che hanno pensato ad una versione ridotta per il suolo statunitense) per non modificare l’imprinting, crudezze comprese (non solo visive: vedere la rivelazione dell’eroe nel finale, sul suo passato poco lusinghiero). Come in The Host, stona la commedia, irrorata in qualche carattere-macchietta, in tutta una parte centrale (del film e del treno) con grottesco spinto (la scuola elementare), quando era sufficiente mantenere il carattere strampalato di Tilda Swinton alla Terry Gilliam (c’è anche John Hurt: citazione diretta), consono in un impianto distopico e (a differenza di quanto Gilliam avrebbe fatto) molto votato all’azione. La parte “politica”, immancabile in Bong, è prepotente fin dal testo di base, anche in modo schematico, con il microcosmo umano diviso in classi, ma è quella filosofico-metafisica a connotare e rendere speciale il film, al di là dei demeriti.