Drammatico

SERAPHINE

Titolo OriginaleSéraphine
NazioneFrancia/Belgio
Anno Produzione2008
Genere
  • 67082
Durata125'
Fotografia
Montaggio

TRAMA

Vita e opere di Séraphine Louis (1864-1942), meglio nota come Séraphine de Senlis dal nome della città francese della Piccardia dove visse, lavorando di giorno come donna delle pulizie e dedicandosi di notte in gran segreto alla pittura. Poco prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale il collezionista e commerciante d’arte Wilhelm Uhde in modo del tutto casuale si accorge del suo talento tenuto nascosto e decide di portarlo alla luce.

RECENSIONI


Trionfatore ai Césars 2009 con ben sette premi vinti tra cui quello per il miglior film e quello per la migliore attrice protagonista (eccellente prova di una magnetica e “materica” Yolande Moreau), Séraphine, uscito in sordina sugli schermi italiani nell’ottobre scorso, appartiene a quel sottogenere “pericoloso” che è il biopic d’artista, e in particolare il biopic di pittori. “Pericoloso” perché l’idea dura a morire (e cristallizzatasi in roccioso cliché) dell’artista come paria della società troppo spesso scivola in un risaputo maledettismo e perché nell’affrontare sul grande schermo le opere e i giorni di chi si è consacrato alla pittura e nell’incontro-scontro tra due mezzi espressivi così lontani così vicini come la pittura e il cinema non è sembrata mai esserci molta alternativa nelle scelte di messa in scena tra un mimetismo stilistico a forte rischio kitsch (dalle raffinate sperimentazioni luministiche del Caravaggio jarmaniano alle ridicole riproduzioni circensi di Frida di Julie Taymor) e uno sguardo frontale più distaccato e meno arty dalle intenzioni spesso principalmente didattiche. Non che sia nell’uno che nell’altro caso, con comunque significativi e personali slittamenti di percezione, non si sia riuscito a realizzare opere (più che) pregevoli: ad esempio, soffermandoci brevemente su un solo nome, Van Gogh, oggetto di una vasta filmografia, basti pensare al colorismo violento di Minnelli che nel suo Brama di vivere scardinando la rigidità della narrazione e rielaborando la visionarietà dell’artista fa quasi esplodere le inquadrature oppure, all'opposto, all’asprezza antispettacolare e alla distanza dolorosa del Van Gogh di Maurice Pialat.


Nel raccontare la vicenda umana ed artistica di Séraphine Louis da Senlis, Martin Provost pur riproponendo alcune delle caratteristiche appena descritte centra comunque per forza di discrezione e pulizia di sguardo l’obiettivo. Il regista non nasconde di certo un legittimo intento didattico (gettare luce su una figura dimenticata e poco nota al grande pubblico) inserendolo però in un accademismo onesto, rigoroso, descrittivo sì ma mai piattamente illustrativo: grande attenzione al contesto, cura del dettaglio nella ricostruzione ambientale, narrazione piana e cronologicamente lineare divisa in due grossi blocchi (prima e dopo l’ellissi della Grande Guerra) punteggiata da dissolvenze in nero, composizione dell’inquadratura improntata a una sobria e naturalistica pittoricità. Nella vicenda di Séraphine, creatura appartata, selvatica, mai in sintonia con la propria epoca eppure di essa e della sua malcelata violenza visionario sismografo tramite l’inquietante visceralità della sua opera, Provost trova terreno fertile per indagare sul conflitto natura-cultura. Esponente inconsapevole dell’art naïf, anche se il suo mentore preferisce la locuzione di “primitivi moderni”, nella scena iniziale Séraphine viene ripresa mentre alle prime luci dell’alba cerca nel greto di un fiume materia prima per i suoi colori. Subito dopo, rispondendo al richiamo delle campane del mattino, si rifugia in chiesa per rendere grazie. La campagna piccarda e gli interni delle chiese sono i suoi territori d’azione e d’elezione. Nelle sue tele la donna lavora elementi naturali grezzi come fango, sangue animale, radici, cera, spesso recuperati di nascosto, alla fiamma allucinata di una religiosità istintuale, un misticismo panteista interiorizzato nella propria educazione cattolica. Séraphine abbraccia gli alberi con lo stesso trasporto con cui bacia la statua della Madonna: nel chiuso della sua scalcinata mansarda la donna dipinge i suoi fiori e le sue piante intonando litanie in onore della Vergine in una sorta di trance estatica.


L’incontro tra la donna e il critico e collezionista d’arte Wilhelm Uhde, tra i primi acquirenti delle opere degli allora sconosciuti Picasso e Braque, figura fondamentale nella carriera di Henri Rousseau e principale patrocinatore della pittura naïve, unico a riconoscere e incoraggiare il talento di Séraphine, dà il via a un rapporto tratteggiato con ammirevole delicatezza di toni che arricchisce di nuove luci e ombre il tema natura-cultura. Entrambi “stranieri” per nascita, l’uno tedesco, dunque nemico, e omosessuale (particolare affrontato in modo incisivamente obliquo), l’altra idiote neanche troppo savante, fisicamente sgraziata, di umilissime origini, cresciuta pietosamente dalle suore e donna di fatica presso le benestanti e sprezzanti famiglie borghesi di Senlis, Séraphine e Uhde si assistono a vicenda in un fecondo scambio spirituale e materiale ma la disparità di strumenti culturali a loro disposizione (l’estrazione sociale, le disponibilità finanziarie) ne segna fatalmente i percorsi: la loro “diversità” naturale non otterrà lo stesso posto nel mondo, almeno non in vita. Anche la ricchezza improvvisa della donna, frutto della vendita di alcuni suoi quadri, è destinata a tradursi in scacco: Séraphine comincia ad accumulare oggetti costosi e preziose suppellettili in maniera dissennata, incapace com’è di capire a fondo i meccanismi spietatamente logici dei rapporti economici, continuando ad aggirarsi scalza e selvaggia nel suo appartamento ormai signorile, in un’ansia tutta infantile di riconoscimento sociale che la porterà a comprare l’abito nuziale tanto sognato. Nozze senza marito, corteo nuziale solitario, essendo la donna sposata unicamente a se stessa (già nel cognome-nome maschile-femminile: Louis Séraphine), alle proprie visioni, alla follia che la porterà a concludere i suoi giorni internata in un ospedale psichiatrico senza prendere più in mano le sue tele (“la pittura se n’è andata nella notte” confesserà a uno dei suoi medici).


La tavolozza di colori pre-impressionista utilizzata (tonalità fredde e invernali dominano la bella fotografia di Laurent Brunet) ha l’effetto di far spiccare ulteriormente il furore naif delle opere di Séraphine, l’accademismo garbato della messa in scena finendo così per esaltarne per contrasto le pulsioni avanguardistiche. In una delle sequenze più belle, la donna presenta i suoi quadri a una serie di personaggi del luogo, amici o conoscenti, in una sfilata di semplici campo-controcampo che vede da un lato le diverse reazioni degli spettatori di fronte alle sconcertanti tele della donna (a una signora che afferma di vedere nei suoi fiori cose terrificanti come “insetti, occhi feriti, carne maciullata” Séraphine risponde che anche lei, quando riguarda ciò che ha fatto, ne ha paura; la suora che l’ha allevata con uno sguardo pieno di preoccupata ammirazione mette in dubbio che sia proprio l’angelo custode a guidare la mano della pittrice), dall’altro Séraphine che regge i suoi quadri e se ne scherma in una comunione quasi corporea con la sua arte: un piccolo e ingenuo mondo antico che si trova a fronteggiare una psichedelia ancestrale germogliata nella natura del luogo ed esplosa in un groviglio di fiori, frutti, rami, foglie di deflagrante e disturbante sensualità, nature morte urlanti, eden incendiari. Provost rendendo omaggio all’arte della donna non ne intacca il mistero, lo mostra senza la presunzione di spiegarlo, evita idealizzazioni romantiche ma non intende chiudere su una nota rinunciataria. Se in una delle primissime scene si era visto Séraphine arrampicarsi sui rami di una quercia e lassù fermarsi in beata contemplazione del paesaggio, il campo lungo finale osserva la donna trascinare lungo un prato la sedia in ferro battuto che era più volte apparsa lungo il racconto (Uhde anni prima l’aveva invitata a interrompere le sue faccende domestiche e a sedersi perché riuscisse a spiegarle la preziosità dei suoi lavori e la sua disponibilità ad aiutarla) e infine accomodarsi all’ombra di un grande albero, nell’ipotesi di un forse ancora possibile abbraccio tra natura e cultura.