Thriller

SAW – L’ENIGMISTA

Titolo OriginaleSaw
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2004
Genere
Durata100'
Sceneggiatura
Scenografia

TRAMA

Lawrence e Tapp si risvegliano in una stanza sconosciuta; al centro una pozza di sangue, un cadavere, una pistola.

RECENSIONI

Dinanzi ad un cinema de paura, mi si passi il paradosso, piuttosto intimidito, nell’epoca in cui Shimizu conquista le nostre sale con l’auto-remake di THE GRUDGE ed il suo notevole MAREBITO (presentato a Venezia 2004) è già invisibile, mentre un losco collage di pellicola precedente è spacciato per originalità (e i più ci cascano, L’UOMO SENZA SONNO), proprio quando per esulare dall’imbalsamato contesto occorre battere strade alternative ad alto rischio fraintendimento (THE VILLAGE), SAW di James Wan si presenta come un gioco: ha un manuale da rispettare, regole precise, pochi fronzoli e spalancare le pupille. Al primo posto, la primitiva sospensione dell’incredulità: SAW non è sempre verosimile, anzi quasi mai, ma se si avvalla –per esempio- un’audiocassetta funzionante nelle tasche di un uomo in una vasca piena d’acqua, allora siamo sulla buona strada. Subito dopo, ancora più difficile, passare sopra alle scoperte citazioni rivolte ai classici del genere (addirittura LA FINESTRA SUL CORTILE); ed infine, come colpo di grazia, assolvere le (sparute) sviolinate di rock giovane che hanno portato la produzione a dichiarare: Poteva essere un film di Hitchcock  se egli avesse visto un video de i Nine Inch Nails (argh). Detto questo, il recensore possiede tutti gli estremi per calare la scure: ma il “problema” è che SAW è maledettamente divertente, onesto in quanto svela subito la sua natura (con una lieve patina da serie B estremamente piacevole), sincero addirittura nell’ingenuità. Scontrandosi con il difetto di una regia anonima perché conformista (riprese avvolgenti, anfratti oscuri, qualche stacco da videoclip), Wan sopperisce con una qualità che non si vedeva da tempo: contro un cinema narcotizzato che droga i propri fruitori come bovini, li rilassa e li rassicura, il suo è un film realmente cattivo. Giravolte dell’intreccio di sana pazzia, nessun rispetto per i gusti anatomici del pubblico, accadimenti repellenti, torture quasi medievali, gustosi accenni di caricatura (il poliziotto nero, alter ego del Freeman di SEVEN, fa una fine che non si augura a nessuno), sangue sangue e sangue come l’Hooper dei tempi d’oro: un bulbo oculare è da riservarsi per l’incredibile conclusione, che dopotutto avevamo già visto (saw...), anzi ce l’avevamo proprio sotto gli occhi.
Cary Elwes si moltiplica con lodevole inventiva, profumato in modalità flashback ma lercio e disperato nel ventre della balena; Whannel è un simpatico ragazzo e poco altro, Monica Potter non pervenuta.

Piccola (inutile) considerazione preliminare: parliamo di un’opera già destinalmente mutilata nel pro(/pre)-filmico scorgendo la censoria sega filmicida della distibuzione recidere svariati metri dal corpus di celluloide. In uno spazio (e in un tempo) molto più che liminare siamo, nostro malgrado, già catapultati nella dimensione del thriller. E’ oramai consolidata consuetudine rimanere nella gelida e rattrappita attesa di un dvd che risarcisca il nostro desiderio (e il nostro perverso godimento) di ricomposizione, di integrità corporea, di completezza (e forse compattezza) artistica.
Ci sembra di poter affermare non poco perentoriamente che Saw sia rimasto un tentativo solo embrionale di sviluppare a livello visivo (e dunque registico) un intrigante plot pieno di potenziali derive (e intersecazioni) semantiche (la vista, il corpo, la malattia, anche morale e sontaghianamente metaforica, il gioco, la morte). Lo stile anonimo e anodino del poco talentuoso giovane James Wan smonta involontariamente ciò che lo script cerca di costruire sostituendo sciaguratamente con una inspiegabile (e inspiegata) scivolata comica del tutto fuori registro (neanche fosse o desiderasse di essere un b-movie, alcune sequenze come quella della pietas familiare del chirurgo risultano addirittura ridicole, per tacere poi di tutti i dialoghi sostenuti, si far per dire, dal fotografo compagno di sventura) l’intero senso di disperazione che l’angoscia di una situazione kafkiana spinta alle estreme conseguenze pretenderebbe. Tutto il discorso su “la visione e l’enigma” (l’incrocio di traiettorie visive e di sguardi, tra gli oggetti nascosti nel campo visivo, gli occhi smarriti dei due prigionieri e l’ossessione scopica dell’assassino/enigmista irriducibilmente voyeur: il killer vede vedere le sue vittime attraverso uno specchio) avrebbe meritato ben altra trattazione filmica, invece Wan preferisce inseguire altri percorsi (anche narrativi, arrischiando nel suo incerto incedere sul crinale di un genere che esige sempre nuovi stilemi espressivi da immolare inani coups de théâtre nella obliqua speranza di coinvolgere in crescendo l’attenzione dello spettatore), altri cinemi (e altri pasoliniani cinémi, fin troppo fastidiosamente riconoscibili) che finiscono però per costituire un corpo pellicolare morto, ingombrante, fasullo e putrescente come quello, inquietante solo nell’incipit, che troviamo al centro delle prime inquadrature da autentico industrial grandguignol e che non chiede diegeticamente altro che un senso (suggestione ottima a dire il vero) e che Wan decide di rianimare per l’ennesimo plateale colpo di scena. Un film che non si mostra assolutamente in grado di lavorare sulle atmosfere claustrofobiche a cui, si perdoni l’antifrasi, il soggetto si apre (la claustrofobia è tutta iniziale e dura davvero poco per essere definita tale) e che si illude di potersi reggere su qualche rarissimo istante di fulgida, visionaria ispirazione (la marionetta sul triciclo e qualche momento di varia, liberatoria profusione emoglobinica).