TRAMA
Al ritorno dalle Crociate, Robin di Loxley scopre che nella contea di Nottingham dominano ingiustizia, povertà e corruzione. Grazie all’aiuto di un comandante arabo conosciuto in guerra riuscirà a organizzare una ribellione del popolo. A dargli manforte, tra gli altri, il suo alter ego Robin Hood.
RECENSIONI
Scordiamoci Douglas Fairbanks, Errol Flynn, Sean Connery, Kevin Costner, Cary Elwes, Russell Crowe, solo per citare i più famosi Robin Hood del grande schermo. E non solo loro. La voce fuori campo che accompagna il prologo chiarisce infatti subito le intenzioni. Occorre dimenticare tutto ciò che si conosce. Quella proposta (tra i produttori anche Leonardo DiCaprio) attraverso Otto Bathurst, al suo debutto nel cinema dopo tante serie tv e con una regia più di servizio che personale, è infatti una rivisitazione che non cerca alcuna coerenza filologica, ma prova a ripartire da zero per rinverdire il mito e aggiornarlo ai tempi. Per farlo tenta di agganciare il pubblico adolescenziale cavalcando la moda del momento e trasformando quindi Robin Hood in una sorta di supereroe. Continua sempre a rubare ai ricchi per dare ai poveri, e sempre tra il 12° e il 13° secolo, ma si fatica a collocarlo temporalmente a causa dei tanti voluti anacronismi, dal cappotto in pelle grigia del super cattivo alle balestre mitragliatrice, tanto che quando a un certo punto si sente nominare la foresta di Sherwood ci si sente spaesati. Il progetto potrebbe essere anche piacevole ai fini dell’intrattenimento, ma non gode di sufficiente suggestione e, soprattutto, cozza con l’impianto quanto mai tradizionale della narrazione. Se l’idea, quindi, osa, gli sviluppi del racconto molto meno. Nel calderone narrativo finiscono un nobile defraudato, potenti corrotti, il popolo vessato, un’amicizia virile, un personaggio sdrammatizzante, un grande amore e l’immancabile rivale, il tutto condito da inganni, soprusi, trame oscure e tantissima azione. Solo che le interazioni sono forzate e i personaggi mere pedine di un gioco via via sempre più inconsistente.
Punto di non ritorno la sequenza della festa a corte, momento cruciale di incontro e scontro dei personaggi per consentire di inasprire i conflitti e fare scoperte determinanti all’evolversi della vicenda. Da un lato la fascinazione visiva è innegabile, dall’altro, però, si procede per accumulo senza curarsi troppo di psicologie e coerenza. Basta pensare a Lady Marian, pardon solo Marian, paciosa e sorridente nonostante di problemi ne abbia tanti (è divisa tra due uomini e ha un ruolo di rilievo nella ribellione del popolo contro la dittatura), o alla frettolosa costruzione del cattivo per il sequel che verrà se gli incassi lo vorranno. L’azione diventa poi sempre più protagonista, ma se la sequenza iniziale gode di una regia attenta a creare un’atmosfera di attesa, forse anche perché le coordinate della storia sono in stato embrionale e la curiosità ancora desta, quella lunghissima con i cavalli in fuga è invece un caos senza fine. Di luogo comune in luogo comune non manca nemmeno, e senza alcuna ironia, il bacio nel momento meno opportuno. Al ritmo frenetico finisce per soccombere il cattivissimo di Ben Mendelsohn che aveva invece le carte in regola per lasciare il segno. C’è chi ha visto nel film una metafora delle disuguaglianze sociali contemporanee, chi una rappresentazione della situazione medio orientale, chi le banlieue parigine, chi addirittura i Black Bloc e chi tutte queste cose insieme. In realtà sembra più che altro che si cerchi di contaminare il mito con echi di tutto ciò che può apparire fotogenico. Il pastiche, però, non ha sufficiente spregiudicatezza per dare pieno significato al termine postmoderno.
