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RIFKIN’S FESTIVAL

Titolo OriginaleRifkin's Festival
NazioneU.S.A., Spagna, Italia
Anno Produzione2020
Genere
Durata92
Sceneggiatura
Scenografia

TRAMA

I coniugi Mort Rifkin e Sue, lui ex docente di cinema, lei agente di un giovane regista francese, vanno in Spagna, a San Sebastian, al Festival Internazionale del Cinema.

RECENSIONI

Tra i tanti temi su cui Allen è viepiù tornato, più o meno esplicitamente e ironicamente, nell’arco della sua carriera, c’è sicuramente quello del rapporto tra Arte e Vita. Rifkin’s Festival, però, rischia di essere, non si sa quanto intenzionalmente, l’episodio/esempio più eclatante: (mi) è infatti impossibile parlare dell’ultimo film di Woody Allen senza pensare al qui e ora del Woody Allen ottantacinquenne sostanzialmente emarginato dal mondo del cinema per le note vicende giudiziarie (peraltro abbondantemente concluse) e senza, soprattutto, temere che questo potrebbe essere davvero essere il suo ultimo film. Per questo motivo, tolgo la parentesi da quel “mi” e dichiaro che questa sarà una recensione del tutto personale, scrivendo la quale non terrò conto del caro precetto di Barthes, che 54 anni fa teorizzava La mort de l'auteur (ovviamente semiologica, per così dire). Stavolta, no, niente distacco, niente (o poca) analisi testuale, non ce la faccio, non con questo Allen, in questo momento. Non potrebbe essere altrimenti dato che io, come milioni di altri, a Woody Allen devo tantissimo*, dalla passione per il cinema fino ad arrivare all’influenza formativa sul senso dell’umorismo. Sempre che io ne abbia uno, di un qualche tipo, e sempre che gli altri lo percepiscano come humour.

In Rifkin’s Festival l’amato Woody sembra voler in qualche modo riassumersi, tirare le fila, esplicitare. Mort (sic) Rifkin, un Wallace Shawn non particolarmente ispirato, è un evidente alter ego del regista/attore/uomo(?) - il primo vero imitatore autorizzato fu probabilmente Kenneth Branagh in Celebrity, il più efficace Larry David in Whatever Works -: ex docente (aka regista/maestro) di cinema, aspirante scrittore (in crisi) che accompagna, controvoglia, la moglie/agente al Festival del Cinema di San Sebastian. Mort è un evidente surrogato alleniano, novello Alvy Singer, Isaac Davis o Mickey Sachs, che ne mutua il cinismo, l’ipocondria (vera e/o simulata), la misantropia e la simpatia, fatta del riconoscibile battutismo che conosc(iam)o bene. Ma che non ci fa più ridere. Non stavolta. Perdonatemi se torno alla primissima persona ma, per spiegarmi meglio: la sensazione che ho provato guardando Rifkin’s Festival è stata, spesso, di malinconia mista a una strana forma di imbarazzo, di disagio, quasi. I dialoghi erano (probabilmente) quelli, l’ironia anche, le freddure quelle giuste ma, per qualche motivo, la risata implodeva, rimanendo allo stadio larvale di sorriso di circostanza, mosso dall’affetto per i be(llissim)i tempi che furono, con un accenno di lacrimuccia in agguato.

Non è semplice (non per me, almeno) capire quanto ci sia di intrinseco e quanto, invece, di eterodiretto, quanto, per dirla fuori dai denti, l’ultimo film di Woody Allen sia stanco e triste, quanto sia triste io nel mio approccio al film (o quanto fosse triste lui mentre lo scriveva e lo dirigeva) ma c’è quest’aura testamentaria, questa lotta di retroguardia contro il (mondo del) cinema di oggi, questo rimpianto per il cinema di una volta che non possono non mangiarsi il film fino a renderlo quasi ingiudicabile. Almeno per me, ovviamente. Mort/Woody che ce l’ha col giovane regista (che si crede) impegnato e si rifugia nei sogni del Grande Cinema della sua gioventù cinefila non può non colpire, intenerire, anche. Sono omaggi smaccati fino al goffo, mimetici in maniera scolastica, ironici, certo, ma sicuramente veri, sentiti. Dopo Orson Welles arriva tutta l’Europa che conta (per lui): Fellini, Lelouch, Godard, Truffaut, Buñuel e ovviamente Bergman, l’adorato Bergman più volte difeso (come in Manhattan, quando Yale e Mary lo mettono tra i sopravvalutati), omaggiato e smaccatamente imitato (Interiors) e che qui vince per distacco sugli altri guadagnandosi ben tre rimandi (Il Posto Delle Fragole, Persona e Il Settimo Sigillo). In questo excursus tra i giganti del passato, Storaro fa lo studente modello - le luci, i movimenti di macchina sono quelli giusti - e l’ormai fidatissima Alisa Lepselter si può anche divertire con un po’ di jump cut per spiegare la nouvelle vague agli allievi del primo anno.
In un altro momento, in una situazione diversa, probabilmente ci troveremmo qui a dire che Rifkin’s Festival è un film un po’ stiracchiato, stanco e senile, un Allen minore come il precedente Un giorno di pioggia a New York, non all’altezza dell’ancora precedente Wonder Wheel, magari paragonabile al pre-precedente Café Society e via e via fino a What's Up, Tiger Lily?. Ma no. Non stavolta. Stavolta sospendiamo il giudizio e, semplicemente, ringraziamo Yahweh per averci dato un altro film di Woody Allen.

* Per capirsi meglio: quando avevo vent’anni (1993) fui inopinatamente lasciato dalla mia fidanzata di allora, avevo già visto Manhattan un numero patologico di volte e, come reazione, non trovai di meglio che mandare a memoria il monologo che Isaac recita a Mary quando scopre che quest’ultima ha ricominciato a vedersi con Yale. Tutto. Compresa la parte in cui dice “Gesù, sta diventando un film commedia anni ’50, qualcuno dovrebbe cominciare a servire dei Martini”.