TRAMA
Atlanta, Giochi Olimpici del 1996. Richard Jewell, trentenne sovrappeso e sempliciotto che vive ancora con la mamma e si considera un tutore della legge svolgendo in realtà lavoretti di sorveglianza, è il primo a dare l’allarme quando vede uno zaino sospetto abbandonato sotto una panchina durante un concerto al Centennial Olympic Park. Il suo tempestivo intervento salva numerose vite, rendendolo l’eroe del giorno. Ma la sua celebrità istantanea non tarderà a rivoltarglisi contro: subito dopo l’attentato, infatti, Richard diventa il principale sospettato dell’FBI, additato dai media e dalla stampa locale come pericolo criminale.
RECENSIONI
Richard ha trentatré anni, è sovrappeso, vive ancora con la mamma. Appassionato di armi da caccia e di videogame, studia ogni sera il codice penale, crede indefessamente nella giustizia e nei suoi tutori, è convinto da sempre che il suo ruolo sia quello di proteggere le persone. Vorrebbe diventare un poliziotto, deve accontentarsi di lavori saltuari nella sicurezza svolti con lo stesso alto senso del dovere e della missione (“I’m law enforcement, too” continua a ripetere agli agenti dell’FBI che lo stanno incastrando). Nel giardino del bene e del male Richard è l’operatore iper-solerte che strappa le erbacce e difende i fiori, svolgendo la sua mansione in modo così meticoloso e maniacale da sfiorare l’ottusità. Ma c’è di più, e di peggio: alcune di queste caratteristiche lo fanno rientrare nel profilo del lone bomber, del terrorista dinamitardo solitario, mosso da frustrazione e voglia di rivalsa. Coinvolto suo malgrado nell’attentato che colpisce un concerto organizzato nell’ambito delle celebrazioni per le Olimpiadi di Atlanta del ’96, da provvidenziale salvatore di numerosi cittadini si ritrova così in poco tempo a rivestire i panni del nemico pubblico n.1 di quello Stato che vorrebbe servire con tanta deferenza. Il protocollo al quale Richard si attiene con puntigliosità nel momento in cui scopre la presenza di uno zaino sospetto è lo stesso strumento che lo condanna, relegandolo al ruolo di principale sospetto.
Richard Jewell occupa uno spazio a sé nella fenomenologia dell’eroe americano che Clint Eastwood sta elaborando con le ultime opere della sua densa filmografia. Perché a differenza di Chesley “Sully” Sullenberger o di Chris Kyle, non può vantare un professionismo che raggiunge i livelli dell’eccellenza (il pilota capace di un ammaraggio impensabile, il cecchino dal tiro infallibile) né può sfoggiare la prestanza fisica dei ragazzoni di Ore 15:17 - Attacco al treno. Per di più il suo zelo ossessivo, la sua rigidità nello svolgimento di un compito percepito in modo sovradimensionato, il suo manicheismo infantile lo rendono una figura anche un po’ inquietante (si pensi all’affabilità iniziale dimostrata nei confronti del suo futuro avvocato, ai limiti dello stalking, o alla reazione alle legittime rimostranze del rettore dell’università di fronte al suo abuso di potere). Stavolta l’eroe è un uomo comune, comunissimo, senza particolari qualità, una creatura quasi derisoria, in bilico tra il comico e il patetico, che ridefinisce il concetto stesso di eroismo. Non ne restituisce un ritratto immacolato, Eastwood, eppure è dalla sua parte. Perché quello che da sempre gli interessa è il fattore umano, al di là di ogni schieramento ideologico, al di là del presunto “trumpismo” che molta critica d’oltreoceano gli ha rimproverato. E in un mondo dal cinismo istituzionalizzato, un candore come quello di Richard Jewell, grimaldello per scoperchiare le contraddizioni e le ipocrisie statunitensi, rischia ovviamente di passare per patologico, un’anomalia da irridere ed espellere o da sfruttare a proprio vantaggio per l’autoconservazione del sistema.
È un eroismo stolido e fragile quello di Jewell perché proiezione di uno sfasamento tra l’immagine di sé - o meglio, l’immagine idealizzata di sé - e l’immagine pubblica (l’esemplare sequenza del “finto” interrogatorio), perché incarnato da un corpo fuori norma, eccedente i canoni della rispettabilità epidermica, perché ciecamente devoto alla presunta superiorità morale dell’autorità. Mass media e FBI, emanazioni di un potere autoriferito, di una nazione umanamente desensibilizzata, ne rovesciano di segno il valore, sacrificando l’individuo, con tutte le sue debolezze e i suoi pregi, per garantire la percezione della sicurezza all’opinione pubblica inebetita in un ballo di gruppo. Eastwood dissemina il suo film di schermi televisivi, schermi negli interni domestici, schermi nei locali pubblici, schermi nelle stanze del potere: rimandano immagini di facile interpretazione, aboliscono qualsiasi narrazione complessa, restituiscono storie già elaborate e digerite. Ma quando la madre di Richard Jewell - anzi, l’attrice che la interpreta, Kathy Bates - guarda il figlio intervistato in tv, quello che appare per un attimo è il vero Richard Jewell in un filmato d’archivio. Eastwood, consapevole dell’ennesimo livello di finzione che è il suo stesso film, sembra quasi volerne mantenere intatta l’intima verità umana, al di là di qualsiasi interpretazione, anche della propria.
Contro un mondo rapace e ingiusto, ben lontano dall’essere perfetto, ci si asserraglia nel fortino di una comunità di marginali: una mamma avanti negli anni e il figlio obeso, un amico sfaccendato, un avvocato anti-sistema a corto di clienti e la sua segretaria-fidanzata di origine russa (e, en passant, i duetti tra questi ultimi ci fanno desiderare ancora di più quella commedia sentimentale che il regista californiano non ci ha ancora regalato). Eastwood, oggi quasi novantenne, continuando a coniugare individualismo anarchico e umanesimo resistente, li racconta con sapiente economia narrativa e asciuttezza di toni, usando in modo narrativo le luci oblique di Yves Bélanger, tenendo a bada il côté thriller (la modulazione piana di tempo e spazio nella macrosequenza dell’attentato) e aprendo a tocchi di commedia dagli echi screwball nel momento della home invasion ad opera della polizia federale, tra tupperware trafugati e la cordialità autolesionista di Richard, arsenali improbabili nascosti in cameretta e le moleste esplosioni sonore dell’ennesimo passaggio in tv di Iwo Jima, deserto di fuoco (con John Wayne che compare tra i fotogrammi, repubblicano di ferro, eroe americano di celluloide per eccellenza).
Nell’epilogo, sei anni dopo essere stato prosciolto da ogni accusa e finalmente poliziotto a tutti gli effetti, Richard viene a sapere dal suo ex avvocato della cattura del vero attentatore. “Look at you”, gli dice alla fine l’amico, sorridendogli e osservandolo nella sua nuova divisa. Ed ecco che si torna all’immagine scissa di cui si parlava sopra. Poco prima, nella cornice di una scena squisitamente americana - un tipo con qualche chilo di troppo che mangia golosamente una ciambella seduto al tavolo di un diner -, era avvenuto il crollo emotivo di un uomo innocente che fino a quel momento si era testardamente fidato della giustizia delle istituzioni, a scapito della propria dignità. “Look at you”. Ma chi vede adesso Richard Jewell quando si guarda riflesso nella foto che campeggia in salotto? Un agente di polizia al servizio di quali valori condivisi? Per proteggere chi? Qual è ora l’immagine che ha di se stesso? Richard è perplesso. Qualcosa si è incrinato per sempre. Il suo primo piano si dissolve rigorosamente in nero.