
TRAMA
Il chirurgo ucraino Serhiy viene catturato dalle forze militari russe in una zona di guerra dell’Ucraina orientale e, mentre è prigioniero, assiste a spaventose scene di umiliazione, violenza e indifferenza verso la vita umana. Dopo il rilascio, torna al suo comodo appartamento piccolo borghese e tenta di trovare uno scopo nella sua vita dedicandosi a ricostruire la sua relazione con la figlia e l’ex moglie.
RECENSIONI
Reduce dal successo di Atlantis, vincitore della sezione Orizzonti alla Mostra del Cinema 2019, Valentyn Vasyanovych approda al concorso principale veneziano con Reflection, film la cui lettura sembra doversi calare imprescindibilmente in filigrana attraverso il film precedente, quasi ne fosse una variante, un riflesso vagamente distorto, una rifrazione dello stesso raggio. Siamo ancora nell’Ucraina orientale, zona di guerra piagata dal conflitto con l’invasore russo. Qui le forze militari occupanti catturano un chirurgo ucraino, che si chiama Serhiy, come il protagonista dell’opera precedente. Durante la prigionia l’uomo è testimone di ogni atrocità, dalla violenta umiliazione dei corpi alla raggelante indifferenza nei confronti della vita umana. Una volta lasciato libero tornerà al suo appartamento, un nido caldo e borghese. È qui che il film si divide nettamente in due: da un lato il peso mortifero della guerra, dall’altro l’agio apparente della vita nella capitale. A questo punto, proprio come l’altro Serhiy, anche questo Serhiy tenterà di restituire un senso alla sua vita, impegnandosi in una tormentata rieducazione all’amore e all’umanità, nel tentativo di recuperare un rapporto con l’ex moglie e soprattutto con la figlia.
Ma non sono solo assonanze narrative e tematiche ad avvicinare i due film. Ad unire le due opere è soprattutto la prospettiva formale di Vasyanovych: rigorosa, esigente, intransigente, verrebbe da dire totalitaria (è regista, direttore della fotografia e montatore). Reflection porta avanti l’impostazione fortemente cerebrale di Atlantis e il suo iperrealismo sconfinato, ma dove nell’opera precedente i formalismi concertavano al servizio dell’urgenza cataclismatica del racconto politico, qui si incancreniscono in una gabbia che, esaurita la sorpresa, imprigiona il film fino all’asfissia. Reflection è una masterclass in composizione delle inquadrature, un banco di prova mirabile per come il regista riesce ad orchestrare complessi tableau e piani sequenza virtuosi che sottolineano in maniera sicuramente efficace l’animo spaventoso e la tempra potente del racconto. Ma certi barocchismi visionari del film precedente vengono qui asciugati in una sorta di minimalismo manierato che, nel corso di due ore abbondanti di visione, rischia troppe volte l’esercizio (anche di pazienza) mentre, narrativamente, ribadisce monocorde uno stesso punto politico del racconto. Le riflessioni sull’orrore e il trauma della guerra, sulla perdita dell’umanità, perdono forza lungo la via del calvario umano del protagonista: se la prima parte mantiene una sua efficacia e veemenza, è nella seconda metà che, fra piani sequenza di lunghezza (percepita) sempre più estenuante e nella mancanza calcolata di ogni calore o empatia pur affrontando un supposto riavvicinamento alla vita, il film e la sua visione si appiattiscono sulla ripetizione. Reflection ci mette di fronte ad un metteur-en-scène di potenzialità impressionanti, qui caduto - ma è solo un inciampo - vittima di se stesso.
