
TRAMA
Ucraina dell’Est, 2025. Sergiy e Ivan sono due ex commilitoni sopravvissuti alla guerra con la Russia. La regione in cui vivono è piagata dai resti del conflitto e da un feroce inquinamento industriale, causato da scellerate decisioni belliche. Ivan non riuscirà a resistere allo stress post-traumatico mentre Sergiy troverà una speranza diventando volontario in una missione dedita al recupero dei caduti sul campo. Durante quest’esperienza incontrerà Katya. I due, assieme, potranno forse ricominciare a vivere.
RECENSIONI
Un treno merci trasporta crogioli carichi di scorie industriali, scarti metallurgici che sotto forma di lava vengono rovesciati all’aperto, lasciati lì a raffreddarsi e penetrare in un terreno che è sempre più orizzonte di linee spezzate e tossiche, un deserto in rapida formazione. In uno di questi giganteschi contenitori c’è tutto quel che è rimasto di Ivan, ex soldato afflitto da PTSD e inadatto alla vita, sconfitto da uno stato di guerra interiore che lo ha portato, mentre lavorava in un’acciaieria industriale, a gettarsi in uno dei calderoni. La lava metallurgica in cui si è immerso viene ora riversa sul terreno, come se si stesse celebrando un beffardo aggiornamento post-umano di un più consono spargimento delle ceneri; neanche più quelle restano a Sergiy, ex commilitone di Ivan e suo compagno in fabbrica, per piangere l’amico morto suicida. Atlantis, di Valentyn Vasyanovych, è il racconto di un continente scomparso, l’inabissarsi nella polvere acida del deserto di tutto ciò che resta dell’uomo e della sua capacità di sentire, curare, amare. Il racconto, spostato in un vicino futuro, ingrandisce e porta in primo piano i germi di una crisi che è qui, in nuce, pronta a manifestarsi e imporsi come punto di arresto apocalittico, incubo ambientale già in atto.
Pur ambientando il suo film nel 2025, Vasyanovych compie con il suo film un falso movimento, uno slittamento temporale che in realtà sembra più un implacabile zoom-in, un ingrandimento progressivo di una situazione ambientale, politica ed umana la cui crisi è già davanti ai nostri occhi, come un timer che corre vicino allo zero. Il centro del racconto è la guerra scoppiata nel 2017 tra Ucraina e Russia, o meglio quell’invasione sovietica così arrogantemente novecentesca che nel futuro di Atlantis diventa conflitto tout-court; Vasyanovych ne immagina infatti un’evoluzione su larga scala che gli permette di mostrare in modo chiaro il risultato della guerra e le conseguenze disastrose di processi oggi in atto nella regione, per quanto ancora sotterranei. L’Ucraina dell’Est mostrata in Atlantis è una fotografia di ciò che sarà il paese reale da qui a qualche anno, una landa desertica generata dal riversamento nel terreno di acque contaminate dagli impianti minerari. Ma l’uomo è padre e figlio del suo ambiente, e le rovine industriali che dominano la regione sono correlativo oggettivo di una costellazione di traumi umani che lascia sul campo corpi e psiche spezzate, alienazione, smarrimento esistenziale. Il lascito di ogni grande conflitto, che Vasyanovych porta in scena con un approccio iperrealista che evita l’approfondimento psicologico a favore della forza rappresentativa delle immagini e di pochi personaggi principali. In particolare il senso di focalizzazione del racconto – guardare avanti per guardare in realtà se stessi qui e ora, più da vicino e più a fondo – è affidato alla scelta di portare il protagonista Sergiy a contatto con la missione Black Tulip, organizzazione paramilitare dedita al recupero dei corpi di soldati caduti e lasciati sul campo di battaglia (e ispirata non a caso a una missione reale attiva oggi nella regione). Dopo il suicidio di Ivan, Sergiy si unirà ai volontari per cercare di restituire un senso alla sua vita, e tramite questo passaggio Vasyanovych ci porta ad assistere a lunghe sedute autoptiche di corpi e frammenti umani ritrovati nel deserto e ai quali si cerca di restituire un’identità. Un processo ipnotico, estremamente curato dal punto di vista forense ma mai estetizzante, che dona una fisicità disgregata, decomposta e per questo straordinariamente impattante, a una situazione che ancora oggi resta fuori campo tra le pieghe della geopolitica europea. Nel corso di quest’esperienza limite Sergiy incontrerà Katia, e sarà con lei, dopo una catena di finali di crescente intensità drammatica, che deciderà di affrontare l’ultima sfida che gli resta: si può ancora vivere senza guerra?
Già noto per essere il montatore, direttore della fotografia e produttore dell’acclamato e virtuosistico The Tribe, Vasyanovych vince con Atlantis la competizione di Orizzonti a Venezia 76, e ciò avviene certo per l’urgenza, l’intensità e l’originalità della sua materia narrativa, incandescente, ma anche e soprattutto per una forma registica capace di valorizzare al meglio la forza del racconto e le sue istanze. Atlantis infatti è un film estremamente ricercato dal punto di vista formale, intessuto di piani sequenza che, a camera principalmente fissa, riescono a trasmettere momenti chiavi del racconto, senza per questo apparire mai gratuiti esercizi di stile – anzi, alcuni di questi restano nella memoria e negli occhi, memorabili per come riescono a servire la naturalezza del racconto esaltando le sue necessità narrative. Certo, la struttura circolare che apre e chiude la storia impone da subito un’architettura molto cerebrale, sottolineata per di più dal ricorso iniziale e finale agli infrarossi – in principio per raccontare un momento di sepoltura, in chiusura per evocare la forza dell’incontro che dona nuova vita ai protagonisti – ma Atlantis resta comunque l’evocazione di una tensione di fuga, un film di rara potenza in cui tutto converge verso la manifestazione di una forza palingenetica che non si accontenta della desolazione onnipresente e combatte e scava per trovare nuovi spazi, nuova vita, nuovi corpi da cui ricominciare.
