Recensione, Western

QUEL TRENO PER YUMA (2007)

Titolo Originale3:10 to Yuma
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2007
Genere
Durata117'
Tratto dadal racconto omonimo di Elmore Leonard
Scenografia

TRAMA

Bisbee, Arizona: dopo un assalto alla diligenza il feroce fuorilegge Ben Wade si fa pizzicare nel saloon dove si intrattiene con una bella locandiera. Per trasferirlo a Contention, luogo di passaggio del treno per Yuma, occorre una scorta: l’onesto allevatore Dan Evans si offre di partecipare dietro il compenso di duecento dollari. Denaro necessario a pagare i debiti e ad assicurare il sostentamento della propria famiglia.

RECENSIONI

“La morale non c’entra un bel niente qui”: queste sorrise parolette brevi pronunciate da Luke Wilson nei panni di un lurido e crudele Pinkerton che tortura il bandito Ben Wade (Rusell Crowe) suggeriscono l’ottica appropriata per inquadrare il remake del leggendario 3: 10 to Yuma (1957) di Delmer Daves. La versione arrangiata da James Mangold a cinquanta anni esatti dall’originale altro non è infatti che un western sanguigno e rocambolesco sfrondato da qualsiasi complicazione etica. Fuorviante sarebbe parlare di “percorsi di rigenerazione morale” o “finalità pedagogiche”: Mangold riconduce la materia narrata ad una dimensione fondamentalmente adolescenziale mostrandoci tutto attraverso gli occhi di William (Logan Lerman), il figlio quattordicenne di Dan Evans (Christian Bale), e ingigantendo poderosamente la componente avventurosa del racconto di Elmore Leonard pubblicato sul “Dime Western Magazine” nel 1953. Una chiave di lettura, questa, che il film si premura di consegnarci in apertura, guidando i nostri occhi – in soggettiva con lo sguardo di William – sulle dime novel (i racconti pubblicati a fascicoli sulle riviste da un dime, la moneta da 10 cent) che il ragazzo tiene a portata di mano sul comodino. Storie schematiche negli assunti ma travolgenti nella progressione drammatica, grondanti sangue e avventura, sentimenti vibranti e pericolo senza tregua. Quel treno per Yuma di James Mangold è dunque un dime western e come tale va considerato: se l’originale di Daves era un apologo morale di rara concentrazione visiva in cui i movimenti di macchina verso l’alto anelavano alla edificazione di un punto di vista eticamente sovraordinato, il remake mangoldiano si getta con irruenza nella sostanza narrativa, confondendo il proprio sguardo con quello dei personaggi e condividendo totalmente i loro destini, senza cercare un’angolazione esterna o superiore. In questo senso il film di Mangold è efficacemente regressivo, poiché ringiovanisce il genere dal di dentro, sottoponendo un western adulto e meditativo come quello di Daves a una cura rinvigorente a base di dinamismo e essenzialità psicologica, dando risalto alla forza propulsiva delle peripezie (talvolta a rischio gratuità) e alla basicità dei caratteri (a rischio caricatura). Stanti queste premesse, è inevitabile che il rifacimento funzioni meglio proprio laddove si discosta dal tracciato dell’originale (penso alla lunga sezione del viaggio verso Contention) e quando semplifica l’ambiguità dei personaggi (la complicità finale che si crea tra Evans e Wade è tanto elementare quanto avvincente). Russell Crowe e Christian Bale non battono la fiacca e danno vita a un duello virile non privo di un suo fascino. Assistito dalla fotografia essiccata di Phedon Papamichael, Mangold gira dignitosamente il tutto, piazzando un paio di sequenze da shooter esplosivo: l’assalto alla diligenza della Southland Pacific e la strasparatoria finale. Musiche scacciapensieri di Marco Beltrami. Ciononostante.

Assai diverso dal classico di Delmer Daves (se non altro perché dura mezzora in più), che era più compatto, con parabola circolare e struttura geometrica (faceva sentire, ad esempio, la corsa contro il tempo: qui del tutto assente), altrimenti detto un’opera sicura dei propri passi e non all’insegna di ambiguità post-moderne (morali e cinematografiche). Il rifacimento beneficia del talento di James Mangold nell’imbastire i personaggi e l’andamento ponderoso, ma anche della sua inabilità nel rendere credibili le dinamiche psicologiche: in questo senso, la pellicola parte male e finisce male, con Christian Bale che, prima, compie azioni poco plausibili (quando decide di scortare il prigioniero, quando mette in scena il bluff della diligenza) e con Russell Crowe che, alla fine, asseconda inverosimilmente il suo aguzzino per permettergli di fare bella figura dinanzi al figlio (ancora più assurda la scena in cui se la prende con i suoi uomini che sono venuti a salvarlo). La difficoltà maggiore degli autori è stata quella di aggiornare la morale del racconto di Elmore Leonard: se, un tempo, bastava mettere in scena un tipo onesto e integro (o che lo diventava) in nome di valori supremi come Dio e Patria, nel moderno giustificare un uomo probo che compie il proprio dovere fino in fondo è molto difficile, e nel film è percepibile. A parte questo, come western dalla messinscena e impostazione classiche funziona benissimo: dal primo assalto alla diligenza alla lunga sparatoria finale in città, l’azione è spettacolare e appassiona lo scontro fra due codici di vita opposti (e speculari, al di là della Legge), due giganti della recitazione, due personaggi scritti divinamente (inverosimiglianze dette a parte). Anche gli ingredienti “aggiunti” non sono da buttar via: il personaggio di Peter Fonda, il ruolo allargato della figura del figlio del contadino, l’allungamento dell’on-the-road con più pericoli e sparatorie.