TRAMA
Cetto La Qualunque, agli albori della carriera politica.
RECENSIONI
Potrei dire che Cetto La Qualunque è il ritratto fedele di un modo di intendere la vita, di vivere la politica, di guardare alla res publica, di declinare il concetto di giustizia. Potrei dire che è una caricatura impotente, perché - come lo stesso Albanese ha dichiarato - la realtà dei fatti supera una rappresentazione che si vorrebbe deforme, ma che soccombe quotidianamente al grottesco reale. Potrei dire che Qualunquemente frulla usi e costumi da cronaca politica italiota, li cristallizza in gag e battute (a volte folgoranti) che comprendono lo stato delle cose, lo eccedono raramente, frequentemente sono in debito d'aria olezzo. Potrei dire che Albanese scioglie l'attitudine allo sketch in una trama semplice, dallo sviluppo caracollante, ma quantomeno capace di farsi narrazione e non collezione di freddure: i tormentoni televisivi (pilu etc) anzi, risultano posticci, aneddoti difficili da digerire in un racconto che invece si vorrebbe fluido, e discontinuamente riesce ad esserlo, almeno più di Uomo d'acqua dolce, più di Il nostro matrimonio è in crisi, più, ovviamente, di La fame e la sete, film dove Albanese-personaggio assurge a fulcro verso cui tutto tende.
Potrei dire che Manfredonia è un regista pressoché invisibile, che lascia che il decòr sostanzi l'opulenza da capitalismo cieco all'apice/collasso che pulsa nell'anima dei personaggi, in contrasto con la miseria dell'intorno. Potrei dire che, mentre Albanese regna, un comparto attoriale di ottimo livello sfodera caratterizzazioni che, senza soluzione di continuità, dai fasti di Germi scadono nella trivialità (assolutamente aderente alla realtà) da triste trasmissione comica di prima serata. Potrei dire che Qualunquemente ha intenti costruttivi e risultati altalenanti. Che indovina sintesi fulminanti, che fa trapelare la violenza dei suoi personaggi, ma non ha il coraggio (la possibilità?) di spingersi fino in fondo. E lo dico, confermandolo con un voto, quello posto qui sotto.
Ma quel che voglio dire, più di ogni altra cosa, è che forse Qualunquemente è un film, suo malgrado, sbagliato. Perché il pubblico attende gli orrori perpetrati da La Qualunque per ridere. Perché, da sempre, la commedia all'italiana lava le coscienze, mostra mostri e redime nella risata consolatoria. Perché la risata è permissiva, un salto al confessionale per espiare i propri peccati e tornare recidivi sui propri passi. Perché la satira non funziona e appare, nel profluvio televisivo di mise en abyme contraddittorie e senza coscienza storica (nemmeno a breve termine), solo uno sguardo fazioso sul mondo, un punto di vista opinabile, confutabile a suon di altre rappresentazioni, mentre la realtà rimane inerme, altrove. Perché nonostante il film, a volte, soffochi i tempi comici per virare il riso in amara e violenta constatazione, perché nonostante il finale aperto certifichi la mancanza di sanzione e l'assenza di una possibile giustizia, perché nonostante contestualizzi la radice del male altrove (si veda l'incipit, con la cosca mafiosa senza volto a tessere le trame), nonostante tutto questo, in sala regna la risata pavloviana, quella che si alza a ogni smorfia di Cetto, che accompagna gli applausi ai suoi comizi, che si bea nella coazione a ripetere del tormentone, a cui Albanese non si sottrae (chissà cosa scriverebbe l'apocalittico Adorno, che aborriva i ritornelli della musica pop, vedendo le performance dei comici in Tv). Le sfumature non servono, il pubblico è colmo di pre-giudizio, ride per costume antropologico.
Perché il berlusconesimo è il precipitato dell'italianità verso l'abisso, è l'esponenziale risultato degli aspetti più deteriori del cattolicesimo, la tabula rasa del concetto di responsabilità, l'annichilimento della vergogna, il tripudio del sorriso sornione, dell'(auto)assoluzione degli errori, con l'alibi di un'umanità che è mera giustificazione carnale per le proprie nefandezze. L'unica sanzione possibile: una pacca sulle spalle. Una risata vi assolverà. E' la degenerazione della post-modernità, bellezza, la logica del tardo-capitalismo, il trionfo della superficie anziché della profondità. Oggi tutto è una questione di linguaggio. Di come le cose si dicono. L'ha capito Sabina Guzzanti quando, dopo l'incipit di Draquila, si spoglia della caricatura di Berlusconi per (tentare di) guardare più oggettivamente ai fatti, per sostituire alla risata satirica (inglobata dalla lingua berlusconiana) una controinformazione tagliente, meno aperta alla reinterpretazione, meno tacciabile di faziosità.
L'ha capito Nanni Moretti, quando dice: "Questi personaggi non sono comici. Sono violenti". L'ha capito, perfettamente, quando gira quell'opera sempre più profetica che è Il Caimano. L'ho capito io, nel mio piccolo, distintamente, guardando Qualunquemente.
Perché è ora, forse, di parlare un altro linguaggio.
Perché se la critica ideologica mi fa ribrezzo, qui si tratta, semplicemente, di estetica.
Dello sguardo su un Ppaese dove, decisamente, non c'è più un cazzo da ridere.

Qualunquemente è operazione artistica e commerciale predestinata al grande successo. Eppure la missione è in realtà meno facile di quanto possa apparire. Il "progetto" di Albanese ha al suo arco molte frecce, ma al tempo stesso zavorre non meno numerose. Il principale punto di forza risiede a monte e consiste nella qualità dell'idea d'origine. Cetto La Qualunque è infatti creazione pressoché perfetta, tra le migliori dell'intera carriera di Albanese e della satira degli ultimi anni, che hanno offerto molte riuscite imitazioni ma pochi personaggi memorabili. Sintesi non solo di un'idea politica e imprenditoriale, ma più pienamente di una cultura dilagante che non rappresenta solo certo Sud ma tutto il Paese, che è attualissima ma ha radici nel modo d'essere italico tradizionale. Cetto è nato nel 2003 ma non ha mai smesso di crescere e maturare artisticamente, meritando a pieno titolo maggiore valorizzazione e visibilità. Arriva quindi all'appuntamento col grande schermo in piena forma, per nulla logorato dal tempo. Altro punto di forza del film sta nell'energia e nella bravura dei suoi interpreti, non solo Albanese ma tutta la sua orririfica corte. Non si può negare neppure la forza dirompente e corrosiva del La Qualunque style, che in slogan e tormentoni trova espressione efficacissima, non banalizzazione. Il partito "du pilu", che dichiara "I have no dream, ma me piace u pilu" alla platea maschile come pure, "sdraiabilmente", a quella femminile, sintetizza una concezione politica ed un pensiero maschilista che coinvolge le donne quanto gli uomini e che non ha ormai neppure necessità di camuffarsi, purché rafforzi con le promesse il piacere dell'uditorio di riconoscere la proria meschinità in quella di chi è più in alto. Eppure l'ormai leggendario Cetto regge a fatica il formato del lungomentraggio, essendo lo sketch, non sorprendemente, la sua dimensione ideale. Diluito, perde mordente e potenziale comico, svela limiti registici e d'impianto (un errore poco perdonabile è la caratterizzazione dell'avversario: idealizzato ed estremizzato in un modo che indebolisce l'affresco socio-politico). Qualunquemente sconta poi un eccesso di promozione, che in parte ha favorito una saturazione del personaggio, in parte ha bruciato alcune delle battute migliori del film (tra manifesti pubblicitari e sketch trasmessi in tv a ripetizione). Non si può inoltre non osservare che il particolare momento di uscita del film, anziché fare da volano permettergli di calvalcare l'onda dell'attualità, ne ha paradossalmente smorzato l'impatto dirompente. Qualunque costruzione grottesca risulterebbe infatti, tutto sommato, poca cosa al confronto con gli eventi reali. La realtà ha effettivamente superato da tempo la fantasia riducendo anche un comico ispirato a sua controfigura insipiente.

Antonio Albanese torna al cinema riaffidandosi al Giulio Manfredonia di È già Ieri, nel frattempo cresciuto nella padronanza dei ritmi narrativi, dei tempi comici e della commedia amara (vedere Si può Fare): quest’ultimo sa mettersi al servizio degli attori e dei loro personaggi, esaltandone le prove con una cornice di grande professionalità e intuizione creativa (montaggio, profilmico, gestione corale, inquadrature, scenografie e costumi). La stella, comunquemente, è l’Albanese che rispolvera un suo personaggio del programma televisivo “Non c’è problema” (2003) e lo incastona in una drammaturgia compiuta che evita la giustapposizione di sketch, sorta di Il Candidato al contrario dove è acremente paradigmatica l’ascesa dell’uomo qualunque italiano, meschino, maschilista, insensibile, cafone, opportunista, che non concepisce né leggi né tasse e trasferisce il proprio “sapere” ai figli (un troppo affettato Davide Giordano, unica traccia debole del film). Con i suoi avverbi sgrammaticati, Cetto è la summa grottesca dell’uomo medio presuntuoso che, invece che nascondere le proprie bieche motivazioni ad agire, le urla, le condivide e fa proseliti: i suoi tormentoni elettorali geniali, fra “Più pilu per tutti” e “Fatti i cazzi toi”, fanno, come tutti i parti di Albanese, al contempo ridere e inorridire, perché lo spettatore è conscio (forse) che personaggi siffatti esistono realmente. Trovate divertenti una dietro l’altra, indossate da un personaggio che dà i brividi in escalation, con qualche scena geniale (la gag del figlio in prigione e lo spietato confronto televisivo con De Santis: come uscire vincenti da un dibattito parlando di niente, insultando, manipolando l’informazione e ghettizzando il pensiero costruttivo) e, soprattutto, una rappresentazione non ammiccante, nuda e cruda della volgarità italiana.
