TRAMA
Il maestro elementare Michele, dopo anni di lavoro a Roma, viene trasferito nel piccolo paese marsicano di Rupe, nel Parco Nazionale d’Abruzzo. Michele è felice di questo trasferimento perché lo coglie come opportunità per dare una svolta alla sua vita, ma inserirsi nella realtà locale non sarà subito semplice. I veri problemi sorgono però quando la pluriclasse a cui è assegnato sembra destinata alla soppressione a causa della scarsità di nuovi iscritti.
RECENSIONI
Ci sono film così animati di buoni propositi e in grado di intercettare un sentire contemporaneo che ci si sente in colpa a evidenziarne le debolezze. Sono i film in cui il tema trattato e la sua importanza sociale si mangiano il cinema, per cui il cosa diventa prioritario rispetto al come. Ed è ciò che accade nell’opera di Riccardo Milani che combina con garbo Benvenuti al Sud con Io speriamo che me la cavo: il forestiero che viene dal nord, con la variante che qui viene dal centro ed è contento del trasferimento (ma la sostanza non cambia), con i bambini carucci e più lungimiranti dei grandi della realtà locale, nel caso specifico un paesino fittizio di neanche 400 anime nel Parco Nazionale d’Abruzzo. Un progetto molto radicato nel territorio che diventa protagonista trasversale con i suoi paesaggi innevati e la partecipazione attiva degli abitanti della zona, esplicitata nei titoli di coda. Il tema sonda l’abbandono politico delle piccole realtà di provincia, sempre più lasciate a loro stesse e al progressivo spopolamento, che trova nella difesa dei centri di aggregazione l’unico punto di forza per opporre una resistenza non solo di parole ma costruttiva. In questo contesto la scuola è elemento centrale, perché da lì passa molto di ciò che accade in paese ed è lì che poggiano le basi di un futuro che non sia solo altrove. Tutte cose verissime e importanti, su cui il film induce a riflettere, ma al di là delle buone intenzioni e del fine divulgativo, l’insieme vola però abbastanza basso.
Tutto scorre infatti linearmente e con poca verve, se non quella dei validi protagonisti (Antonio Albanese potrebbe infondere umanità anche a un sasso e Virginia Raffaele padroneggia il personaggio con disinvoltura), con una sceneggiatura che dopo premesse abbastanza scontate, ma solide, accumula temi forti restando però in superficie. Pensiamo al raccordo, proprio brutto e raffazzonato, in cui si affronta la fuga della giovane in crisi di identità e il suo repentino salvataggio, o anche alla parte conclusiva che poggia sull’intraprendenza dei giovani allievi per superare l’ennesima difficoltà. Degli stessi due protagonisti non sappiamo nulla, sono solo pedine della narrazione per il ruolo che rivestono a livello istituzionale, la vice preside e l’insegnante, tanto che la loro liason finisce per stridere perché fa emergere carne e sangue fino ad allora assenti. La scansione del racconto procede per tappe successive, l’obiettivo è il salvataggio della scuola, gli ostacoli si succedono in fila ordinata, appena superato uno ne subentra subito un altro, con una progressione senza sorprese che fa accadere le cose esattamente quando e come te le aspetti. Anche il ritmo delle gag segue questo percorso all’insegna della prevedibilità, con un approccio sì problematico, ma anche didascalico e non privo di retorica. Insomma, spiega ma non graffia. Il racconto scorre quindi edificante e moderatamente piacevole, ma dati i talenti e i valori messi in campo era lecito attendersi qualcosa di meno piatto e accomodante. Anonimo il titolo che, come il film, si dimentica in fretta, forse “La montagna lo fa!”, slang locale che ha la forza per diventare un tormentone, sarebbe stato più efficace.