TRAMA
In un piccolo villaggio, la Fata Turchina dà vita al burattino di legno Pinocchio, che affronta tante avventure mentre cerca di diventare un bambino vero. Tutto viene stravolto, quando lascia la casa del padre per seguire il circo.
RECENSIONI
Sbagliato, brutto, inutile, scegliete voi. Spiace, davvero, dover spendere aggettivi così infelici nei confronti di un film di Robert Zemeckis (un grande, un grandissimo), ma purtroppo il suo Pinocchio non può che essere letto come senz’anima. Che la colpa sia del tutto sua, questo è da dimostrare: continua a non convincerci per nulla la wave amarcord di Disney che violenta uno per uno i suoi Classici proponendone versioni "live action" (il virgolettato si rende necessario, visto che Pinocchio animato era e animato – peggio – è rimasto) non si sa bene destinate a chi.
Già, forse è bene partire da qui: a chi si rivolge questo Pinocchio? Ai bambini, forse? E, ma allora non ci siamo per niente, perché il cartone animato del 1940 era tutt’altra cosa, sia in termini di resa, che di messaggi; quel Pinocchio là era un po’ sciocchino (come questo) ma autenticamente menzognero quando doveva esserlo, e per davvero preda di tentazioni a cui cedeva per poi imparare la lezione. Questo invece è un Pinocchietto che alla fine non ci appare mai per davvero colpevole, ma sempre vittima delle contingenze. Il gatto e la volpe lo adescano ma lui in effetti non ha propriamente disobbedito (ha provato ad andare a scuola ma l’hanno cacciato). Va nel paese dei balocchi non per convinzione ma perché rapito a un incrocio, e lì né beve birra (figurarsi fumare il sigaro, espunto dal film) né mai lo si vede in vera estasi pur di fronte a una specie di utopia bambinesca che farebbe godere chiunque. Anche quando mente e gli cresce il naso il sentore generale è che non stia mentendo, che non ci sia della vera disonestà in lui, ma di nuovo che tutto sia frutto di un destino più alto. Cosa ce ne facciamo dunque di questa storia, che non ha morale, e – spoiler – non è nemmeno divertente? Purtroppo un bel nulla.
È dunque un film per “grandi e piccini”, capace di captare le vibes dei più piccoli e i ricordi nostalgici dei genitori che ricordano il “vecchio” Classico? Ok, ma di nuovo: il “vecchio” Classico non è al macero, si può vedere, nella stessa piattaforma peraltro ove è distribuita questa supposta versione rinnovata. Perché mai la Disney stabilisce in maniera così arbitraria l’obsolescenza di prodotti che in realtà funzionano meglio dei loro presunti sostituti? Il cartone era un film di atmosfere sognanti (ah, la bella bottega di Mastro Geppetto) e, pur nello scombiccherato susseguirsi di episodi che poco condividevano con la fonte collodiana (ma, fidatevi, meglio non imbarcarci nella filologia), manteneva una propria verve. Qui, al contrario, è tutto posticcio. La sceneggiatura sembra stare in piedi con le graffette; il montaggio è, semplicemente, insensato: il gatto e la volpe intortano Pinocchio e BAM! ecco lo spettacolo di Marionette (scusa, ma un minimo di consecutio?); Kyanne Lamaya, qui chiamata a interpretare un’anonima Fabiana protagonista di una sottotrama che – non esageriamo – non esiste, vuole ribellarsi a Mangiafuoco, temibilissimo e BAM! ah sì alla fine si è ribellata (datelo per buono, nel film non si vede mica); ma, Robert, che ellissi mai sono queste? Tom Hanks alias Geppetto è un hikikomori annichilito in una sequela di soliloqui imbarazzanti e ci ammorba con una serie di presunti prodromi buttati lì e lasciati morire (servirà un bel prequel per spiegarci meglio? Non vediamo l’ora); Mangiafuoco, che nel cartone era cattivissimo e traumatizzante, fa ridere i polli (non è colpa di Battiston, è colpa della scrittura); il paese dei balocchi è popolato da ombre magiche nere fuori luogo che catturano i bambini discoli tramutati in ciuchini, quando non ce n’era alcun bisogno (sono già in trappola, su un’isola, boh).
Ora, per davvero, non vorremmo andare oltre, ma un’ulteriore, grave nota di demerito va fatta al comparto tecnico: dici, va bene il film è una schifezzuola, ma almeno sarà una gioia per gli occhi. Da Disney te lo aspetti. Se poi conti che dietro a tutto quanto c’è lo stesso signore che ha orchestrato, per dirne alcuni, Ritorno al futuro (che ve lo dico a fare), Chi ha incastrato Roger Rabbit (il miglior film in tecnica mista pre-digitale mai realizzato), Contact (ove, fra le tante cose, la celeberrima prospettiva “impossibile” da dentro lo specchio), o film meno noti ma interessanti come Flight e The Walk, allora sei in una botte di ferro. E invece, di nuovo, no. CGI che dire pietosa è un complimento (il gatto Figaro una autentica disgrazia). Sproporzioni illogiche (il gatto sembra grosso quanto un petauro dello zucchero vicino a Tom Hanks, Pinocchio ci appare vittima di neotenia). Nessun senso di aderenza fra personaggi live e animati (Geppetto tiene in braccio Pinocchio ed è scabrosamente “scollato”, da mettersi le mani sugli occhi). E quindi, piano piano, smetti di chiederti “per chi è ‘sto film”, e inizi a chiederti “perché è ‘sto film”.
Ora, un paio di minime considerazioni finali, un po’ paratattiche ma doverose:
1) A Zemeckis continuiamo a voler bene, nonostante l’inciampone, e ci piace leggerlo un po’ come il suo Pinocchio, vittima di un sistema più in alto, di gatti e volponi che hanno evidentemente le loro buone ragioni per produrre certa porcheria.
2) L’elefante nella stanza, come si direbbe, sarebbe l’affaire Fata Turchina, su cui in molti sul web già si sono espressi. Ecco, banalmente, non ce ne frega pressoché nulla; il problema, signorə, non è la Fata (che, peraltro, è pure ben recitata da Cynthia Erivo rispetto al tenore generale). Il problema è l’anticinema che questo film rappresenta, il fatto che sia l’ennesimo Pinocchio in una sequela di Pinocchi a raffica (che bisogno c’è? saremo mica un mondo di incalliti menzogneri?) che non stenta a fermarsi: prima di questo Garrone, dopo di questo Del Toro, nell’arco di una manciata d’anni. Boh, di nuovo. Si lasci la questione Fata a quel gruppetto di reazionari che ne ha fatto, appunto, una questione.
3) Il finale è l’ultimo calcio sui denti, per tre motivi susseguenti: a. Non ti sei appassionato sin lì, non ti interessa ormai nulla vedere (ché intanto già lo sai) di come Pinocchio salva Geppetto dalla pancia della balena (Balena? Qui ha i tentacoli, è una specie di Kraken, forse, mah, non chiedetemi). b. Anche se non te ne cale più nulla, comunque il Pinocchio-motoscafo riesce ancora a strapparti un impropero (cioè, il Pinocchio-motoscafo?! Sono andato a rivedermi l’originale, e lì, sai com’è, Geppetto e figliol prodigo si allontanano in una zattera di fortuna pensate un po’ remando, con tutta la suspense al suo posto). c. Alla fine Pinocchio dovrebbe diventare un bambino vero, e invece, ancora una volta no.
Ah ecco! Ecco la vera novità! Dulcis in fundo? No, ahinoi, piuttosto in cauda venenum. Perché, come ci dice il Grillo, Pinocchio può essere quello che vuole, e non sta a noi sapere cosa diverrà!
Ma che bella morale, sii ciò che vuoi. Non permettere a nessuno di dirti cosa devi diventare. Sarà sfuggito, a chi si è inventato questa bella lavata di faccia, che Pinocchio sarebbe un bildungsroman già paternalistico quel che basta (l’originale e bella versione Disney, non il romanzo di Collodi, che è più complesso). Ecco, il fatto è che la storia del burattino è una metafora della crescita, che “diventare un bambino vero” potrebbe pure avere a che fare, in certi termini, con delicatezza, con questioni identitarie, ma senza trattare chi guarda il film – grande o piccino che sia – come un (ci si scusi la crudezza) povero scemotto.