TRAMA
Pinocchio che nacque di legno e diventò infine un bambino vero.
RECENSIONI
Matteo Garrone, l'autore meno pedagogico che ci possa essere, in fondo lo aveva già trasposto, filmato. Perché il bellissimo Reality altro non era - lo affermava il regista stesso - che «un Pinocchio moderno», come anche solo la sequenza iniziale e quella finale del film mostravano, in un persistente, assurdo, drammatico e farsesco Paese dei Balocchi. Il Grande Fratello, insomma, poco c'entrava, ma in molti non lo capirono. Eppure, ancor più che un pre-Reality, che un Reality ottocentesco, questo Pinocchio è forse il vero Racconto dei racconti del cineasta romano, una strana - perché coerente e insieme sorprendente, obliqua e dolce - summa di tutte le sue visioni, delle sue ossessioni, fantasie, creazioni. Ma se Sorrentino è il vero, geniale dj del (basso) immaginario contemporaneo nazionale, il cinema di Garrone può stare solo altrove, in un prima o in un dopo che siano, perché il suo è sempre un immaginario poroso ma decentrato: era un bambino e già disegnava le avventure del burattino, magari ancora ignaro del capolavoro di Comencini di quegli anni; la Toscana di Collodi si estende qui sino agli ulivi e al mare di Puglia e sa parlare la lingua di altre regioni; del resto Dogman non era il Canaro ma l'ultimo possibile Buster Keaton in un mondo terribile. E questo Pinocchio non può essere collodiano, nella sua totalità, senza essere al contempo, nel dettaglio, nelle forme, negli strappi anche minimi, una visione pienamente garroniana.
E ciò significa che anche qui il mondo, il mondo che ospita il miracoloso burattino senza però accoglierlo, senza volerlo mai prossimo a sé - questa creatura di legno animata costretta a migrare da un luogo all'altro, a scappare più che a viaggiare - è crudele. È insensato, capovolto, e sono gli innocenti a finire nelle patrie galere. Tuttavia Geppetto (un grande Benigni che anni fa fu invece Pinocchio nel film da lui stesso diretto) costruisce un burattino (Federico Ielapi) e sente, e vede!, un cuore che batte sotto la scorza di legno. Ma l’amore qui presto fugge come in un film di Truffaut, come Antoine Doinel bambino che scopre il mare prima che arrivi il pescecane in un’Italia ora povera, lercia, pasoliniana, ora fatata, protettiva, buona, ma come incubata dentro un’opera Lowbrow Art. L'Italia rurale e stracciona, il Gatto (Rocco Papaleo) e la Volpe (Massimo Ceccherini, strepitoso, e anche compagno di sceneggiatura di Garrone), la casa della Fata prima bambina (Alida Baldari Calabria) e poi adulta (Marine Vacth). Un Pinocchio garroniano, certo, ma di un Garrone sorprendente perché il suo è un film d'amore, lo è molto, film d'amore senza morale, ma che deve passare dal comico all'horror, dalla gioia alla paura, per esprimersi, per accendersi, dal sogno delle tante monetine d’oro al risveglio di mezzanotte e alla realtà da incubo di un albero magico che mai è esistito, di truffatori che tentano di farsi assassini, di un mondo che promette felicità e invece ti trasforma in asino e vuole affogarti dopo che al suo circo non servi più. Esseri umani e animali antropomorfi, cinema fantastico dove gli effetti (da quelli make-up di Mark Coulier ai visual di One of Us e Chromatica, dalla fotografia di Nicolaj Brüel alle scenografie di Dimitri Capuani) guardano gli affetti, dove l’avventura - più che essere narrata - è come dipinta, sospesa, incastonata in un tempo che non è mai tempo, in un teatro delle cose, delle forme, dei luoghi tra vita e non-vita.
Cinema che scivola tra inquietudini perfino polanskiane, come Oliver Twist, e giunge sino a Gondry, al sogno, a quell'infanzia, a un incanto che Garrone sembra schiudere per la prima volta nel suo cinema, commuovendo come si commuove il Mangiafuoco di Gigi Proietti che preferirà mangiare un montone poco cotto piuttosto che vedere Pinocchio o Arlecchino bruciare. Un film che fa ridere, che spaventa, che rallenta e poi accelera, e così di nuovo, o al contrario, tra un sentimento continuo di perdita e desiderio, di perduranti assenze, mancanze, irrealizzazioni, e che infine, incredibilmente, libera tutto e tutti, davanti agli occhi di teneri agnellini. Pinocchio non fugge più ma corre felice, è un bambino vero. Nessuna storia di formazione, questa volta, solo quella - meravigliosa - della sua libertà.
