TRAMA
Seydou e Moussa, due adolescenti senegalesi, lasciano Dakar per raggiungere l’Italia e inseguire il loro sogno. Transitano attraverso il Mali muniti di falso passaporto e, benché la truffa venga scoperta da un poliziotto, evitano la prigione in cambio di denaro.
RECENSIONI
Esistono forme archetipali di racconto che siano universalmente riconoscibili, oppure valide in qualunque ambito della rappresentazione? E, ammesso che esistano, possiamo, in ogni caso, azzardarci nel sovrapporle a qualsivoglia vicenda storica e sociale, anche qualora essa risulti essere distante e inafferrabile al nostro sguardo?
Lo spirito di Io Capitano si fonda e prende forma a partire dai quesiti di cui sopra, domande che delineano, seppure solo nelle premesse, i caratteri essenziali di un gesto filmico estremamente ardito e complesso.
Matteo Garrone, in prima istanza, si pone infatti il problema di come definire un disegno formale/rappresentativo che possa metterci in relazione con un ambito (il tragico esodo dei migranti, attraverso il deserto del Sahara e l’inferno delle prigioni in Libia) a noi lontanissimo e sconosciuto, una struttura che si appoggi a modelli e archetipi che siano, possibilmente, già inscritti nell’orizzonte simbolico dello spettatore occidentale: possiamo pensare, in questo senso, al Viaggio dell’Eroe di campbelliana memoria, paradigma nel quale le insidie e gli ostacoli dell’itinerario fisico vengono raddoppiati nell’universo interiore del viaggiatore; oppure, più semplicemente, all’epica omerica e a un certo modo di trasfigurare e trasformare il reale attraverso le proiezioni, le visioni e i desideri del personaggio (procedimento, quest’ultimo, molto caro al cineasta italiano: la corrispondenza più ovvia è quella con Pinocchio, ma possiamo osservare la medesima tendenza anche in lavori come Reality oltreché nel più recente Dogman).
In secondo luogo, Garrone si occupa del piano fattuale come di uno strato superficiale costantemente connesso alla dimensione magica del racconto, costruendo quindi il film su una dicotomia bi-mondana sospesa tra lo spostamento esterno e il travaglio interno del protagonista Seydoux
(interpretato da Seydoux Sarr).
La giustapposizione continua di queste dimensioni è evidente fin dall’inizio, e in modo particolare nella sequenza del rituale sacro, cerimonia nella quale Seydoux e il cugino Moussa (Moustapha Fall) si mettono in contatto, per mezzo di un medium, con i propri antenati, ottenendo da loro il consenso per il viaggio. Il programma cosmico degli spiriti, tuttavia, si scontra con quello della madre di Seydoux (Khady Sy), la quale si dimostra invece totalmente contraria alla partenza del figlio; il protagonista si trova, pertanto, già indirizzato ad incarnare il confronto/scontro descritto poc’anzi, e sarà proprio questa costante oscillazione a marcare il percorso del viaggiatore fino al termine: a partire dall’incontro lacerante con la morte nel deserto, al quale segue la visione della passeggiata con la donna sospesa in aria, passando in mezzo alla tragica esperienza nel campo di prigionia libico, dove Seydoux, in sogno, incontra il medium di Dakar e torna a visitare, sempre in volo, la madre, guidato da un messaggero angelico (in questo caso, il dialogo tra le due dimensioni si svela con la più cristallina evidenza), per arrivare alla realizzazione, fino a lì inconsapevole da parte del protagonista, del proprio ruolo salvifico nella parte finale (e qui lo spettatore assiste alla definitiva compenetrazione dei due piani), in Io Capitano si dipana quindi un processo di definizione del destino di Seydoux nel quale i due mondi precedentemente descritti arrivano, infine, a congiungersi e risolversi in un’unica dimensione.
Questo continuo passaggio da un piano all’altro del racconto che descrive, in ultima istanza, la ricerca di un’identità sia interiore che, appunto, contingente, ha sconcertato (per molti versi giustamente) tutti quegli spettatori che si attendevano uno sguardo capace di abbracciare maggiormente la disarmante complessità del fenomeno preso in esame, e che fosse quindi meno vincolato alle forme di racconto argomentate all’inizio. Eppure il problema, per noi, resta sempre lo stesso: quale modello di rappresentazione scegliere per raccontare ciò che non possiamo conoscere? Come si costruisce il ponte ideale tra quella realtà e la nostra?