Drammatico, Sala

PIETRO

TRAMA

Pietro, un giovane con ritardo mentale, vive con il fratello tossicodipendente nella casa lasciata dai genitori. Questi lo espone ai crudeli scherzi degli amici, gli chiede soldi per le dosi, è convinto di prendersi cura di lui. In realtà è l’esatto contrario.

RECENSIONI


Presentato al Festival di Locarno 2010, Pietro è cinema idiota che si esprime attraverso il movimento dei corpi: quello di Pietro (un memorabile Pietro Casella), impedito dall’handicap, reso timido non solo dal ritardo, ma dal riflesso di protezione e presa di distanza verso l’esterno; e quello di Francesco, allo stesso modo “imbranato”, come conseguenza degli effetti della droga. Due ostruzioni alla presunta normalità, prima di tutto visibile, che si riflettono l’una nell’altra e generano movimento: infatti il moto del film, più che il vagare di Pietro nella città, è nell’interazione tra fratelli, i loro sguardi e contatti (i tic, gli scatti), le parole come gli omissis. Gaglianone dirige la fisicità degli attori. Ma ancora prima delle figure a incidere è la costruzione del contesto: la città secondo il regista (Torino, ma non si dice mai) è un “universo impazzito” a sé stante, un mondo dopo l’uomo che suona come concentrato di pulsioni anti-sociali (provengono da ogni parte – dalla delinquenza come dall’autorità -: i teppisti che pestano il barbone come i controllori che multano l’anziana). Questa landa ingrigita e pessimista, però, non è artefatta né alternativa al reale; si resta anzi ancorati al dato concreto, come dimostra la lunga sequenza della pulizia in casa (Pietro tenta di riordinare il disordine): scenari e oggetti del quotidiano emergono spiazzando il posizionamento di chi guarda (e se questo mondo fosse davvero il nostro?).


L’autore de I nostri anni usa una divisione letteraria in capitoli (non a caso basati sulle parole dei protagonisti, quindi ancora sull’interazione) e non si preoccupa di mascherare i punti di ispirazione: la scuola realista della tossicodipendenza senza abbellimenti (Amore tossico), la schiettezza dell’handicap che non deve forzatamente finire bene e forse non può che finire male (in ultimo Garage di Lenny Abrahamson), lo scarto della disabilità che genera disagio. Le imitazioni di Pietro nel pub sono momenti di vontrieriana idiozia, spaccati a metà tra scherzo e imbarazzo, ma non giocati sulla finzione provocatoria del danese, bensì semplicemente veri. Attenti a non cadere in inganno: a fronte di questo Gaglianone mantiene fermo uno stile proprio, bagnando la storia in un ambiente che la caratterizza, in una regia coerente e precisa. L’occhio è pudico ma, quando manipola il narrato, sottolinea il dettaglio scomodo – le smorfie, le bocche che ridono sguaiate -, scansa il racconto oggettivo e punta sull’interiorità di Pietro (l’affanno, lo stupore, i sorrisi del protagonista): come nell’apertura, la macchina a mano di Gherardo Gossi rende ansiosa e traballante la scena ordinaria della consegna di volantini, aderendo al respiro pesante del ragazzo. In questo modo, impersonando la minorità, si ottiene un film di straordinaria durezza che culmina nel finale agghiacciante. Daniele Gaglianone, sempre massacrato dalla grande distribuzione (disturba, naturalmente, l’idea non riconciliata della “famiglia”), trova il simbolo principale nella metafora della cecità: come nel verniano Michele Strogoff, Pietro “non vede” in maniera temporanea. Il regista interviene, periodicamente chiude gli occhi del protagonista e manda in nero lo schermo, in un atto di pietà: non guardare è una pausa di sollievo, poi si torna a fissare il dolore della realtà rappresentata.