TRAMA
Maria, Pinuccia, Lia, Katia, Antonella. L’infanzia, l’età adulta e la vecchiaia di cinque sorelle nate e cresciute in un appartamento all’ultimo piano di una palazzina nella periferia di Palermo, dove vivono da sole, senza genitori. Una casa che porta i segni del tempo che passa, come chi ci è cresciuto e chi ancora ci abita. La storia di cinque donne, di una famiglia, di chi va via, di chi resta e di chi resiste.
RECENSIONI
Le sorelle Macaluso era un allestimento teatrale (2 premi Ubu: miglior spettacolo, miglior regia) che, dopo alcuni lavori più azzardati e meno riusciti, tornava a farsi esemplare dell’arte di Emma Dante regista e drammaturga: scarnissimo (solo le attrici in scena: palco nudo, scenografia all’osso), evocativo, corporale & viscerale (due aggettivi inflazionati per definire il mondo della siciliana, ma datecene altri che lo dipingano meglio di così). Lo spettatore, in quello spazio vuoto, immaginava tutto e, miracolosamente, quel tutto lo percepiva nel dettaglio: la tragedia, le età cangianti dei personaggi, amore - sesso - violenza. Non c’erano didascalie, tutto passava attraverso la parola, il corpo e il gesto. Riuscivi a sentire (e a vedere) persino il mare. Una magia che - tanto per restare a una delle ultime cose proposte dalla regista nei teatri italiani - si ricreava in La scostercata in cui, in una messa in scena che definire minimale è eufemistico, Dante riusciva a liberare il cupo fiabesco di Giambattista Basile in forma di fulmineo (e, a suo modo, orrorifico) dramma comico.
Il film in concorso a Venezia non è un semplice adattamento dell’omonima pièce, ma qualcosa di dichiaratamente diverso (ci sono modifiche alla narrazione non irrilevanti: nessun accenno alla violenza domestica e concentrazione sul legame tra le cinque - non più sette - sorelle), un’opera a sé stante che schiva il confronto col precedente, creando un universo suo proprio. Quello di cinque donne - una persa tragicamente per strada - e una casa - teatro del conflitto familiare, gradualmente smantellato - la cui centralità, nella sua quasi tangibile matericità, marca la distanza dalla versione astratta concepita per il palcoscenico: così l’interno è ripetutamente scandagliato dall'occhio della camera, a cercare i luoghi, gli oggetti, gli umori da cui si diramano i drammi delle Macaluso, a far luce eventuale tra le ellissi (i genitori, figure rimosse, come quasi tutto il maschile).
Tre periodi quelli messi in scena che, rapido calcolo, collocano il finale in un’epoca futura, ancora là da venire, in cui il minaccioso lividore del cielo potrebbe essere quello di un mondo al declino che ha perso la battaglia ambientale (azzardo), in contrasto netto col colore e la luminosità della prima frazione temporale (il lungo tragitto che porta le sorelle al mare), quella che, segnata dalla tragica morte della piccola Antonella, decide, direttamente e indirettamente, del destino delle sorelle.
Rispetto all’esordio cinematografico Via Castellana Bandiera - in cui la regista riusciva a inventarsi un western personale, piegando il codice del genere alla sua scabra storia di due Sicilie a confronto - qui si ravvisa una ricercatezza (quel nudo in vasca, quasi uno Schiele vivente) che suona a tratti artefatta, scivolando nell’ammicco o nella ridondanza. Non latita, peraltro, lo sguardo antropologico di Dante, quel senso di oleografia locale sfregiata dalla realtà: seppure ottenebrata da certi orpelli, si distingue chiaramente la trama di ferite sedimentate nel tempo, il conflitto irrisolto tra affetto e convenienza, il senso di un’oscurità densa e imperscrutabile che cela un malessere ancestrale, da sempre oggetto dell’analisi urticante della regista.
Certo, la messa in scena non è sempre equilibrata: il simbolismo è esibito (quel piatto che si rompe non può essere riparato e portato a tavola, ovvio riferimento alla sorella che non c’è più); la lotta ferina, che dovrebbe far irrompere il registro brutale e sconquassante - un po’ la cifra dell’autrice -, si fa parentesi quasi grottesca; il lirismo visivo (i colombi da richiamo diventano ricamo) è motivo troppo reiterato per non suonare sovrabbondante su un tessuto, infine, indeciso tra irruenza primordiale e sofisticherie coreografate o tirate a lucido.