Amazon Prime, Horror, Thriller

PIERCING

Titolo OriginalePiercing
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2018
Durata81'
Sceneggiatura
Trattodal romanzo Piercing di Ryū Murakami
Fotografia

TRAMA

Reed, all’apparenza un normale padre di famiglia, si prepara ad incontrare una prostituta, Jackie: nei suoi piani sarà un’esperienza estrema che si concluderà con la morte della ragazza.

RECENSIONI

Piercing, un participio presente, ovvero il gesto di perforare. La normalità di Reed viene perforata dalla perversione e Jackie è il suo piercing. Ma è vero anche il contrario. Parte come un thriller metropolitano il secondo film di Nicolas Pesce, dopo l’esordio The Eyes of My Mother, con l’inquadratura verticale dei palazzi che fa da cornice circolare. È una conferma: questo regista fa cinema sul cinema. Il Reed di Christopher Abbott, protagonista sadomaso, avvicina uno spillone a una neonata e poi esegue un auto-soffocamento: ha moglie e figlia, un nido domestico, ma la bambina gli parla, come il cane di Berkowitz, invitandolo a trovare una vittima. È la Jackie di Mia Wasikowska, prostituta masochista, preda designata che in un incontro erotico dovrà essere uccisa. Reed allestisce un set, fa le prove per l’omicidio, cerca di dirigere il racconto ma la realtà non va come la sua rappresentazione: è un gioco al massacro all’insegna dello scambio di ruoli, con ribaltamenti continui, dove il carnefice diventa vittima, poi carnefice, poi ancora vittima. Perché qui una perversione ne affronta un’altra: Jackie sta per essere uccisa ma si pugnala da sola, spezza il copione, offrendo un’improvvisazione nella recita di Reed a cui la regia sfugge, che non governa più. Si innesta allora un’ipotesi di solidarietà paradossale tra l’uno e l’altra, perfino una traccia di sentimento: i due sembrano avvicinarsi, formano una specie di focolare, lei cucina per lui. In una sostituzione del rapporto superficiale con la vera moglie, Jackie si propone per Reed come “moglie altra”, di un’alterità freak che è molto più affine della consorte perché in comune c’è il gioco della perversione: un gioco che deve continuare.

Dietro lo scudo dell’allucinazione del protagonista Pesce frulla un immaginario di riferimento: quello contenuto nella colonna sonora (Profondo Rosso e Tenebre, ma anche Tentacoli di Ovidio G. Assonitis e La dama rossa uccide sette volte di Emilio Miraglia), e non solo. Coniuga Patrick Bateman al Cronenberg videodromico (“Vuoi toccare le mie cicatrici?”, dice Jackie), lo split screen di Sisters di De Palma alla rilettura postmoderna della cinefilia, sfacciatamente, come ha fatto Yann Gonzales in Un couteau dans le cœur. Il regista aggiorna il cinema di genere settantesco alla perversione dell’oggi, dove un capofamiglia nasconde la polvere sotto il tappeto: qui si parla in cabine telefoniche ma c’è una città al neon refniana, si evocano gli yuppie assassini di Easton Ellis ma il bondage è da Cinquanta sfumature. Si guarda all’eterno Lynch, al punteruolo di Basic Instinct e a molto altro. Si convoca insomma il genere al primo grado per eseguire la sua riscrittura consapevole. Nicolas Pesce, giovane talento visivo, tenterà una simile opera di reinstallazione nell’oggi con il j-horror nel successivo The Grudge. Il suo è, alla fine, uno scherzo cinefilo: un congegno che barcolla quando si ammanta di pretesa psicanalitica, con Reed che “vede” la mamma nella dominatrice, ma funziona come ironico e affettuoso omaggio ai suoi miti. Nella sostanza non c’è perversione né sofferenza, ma solo rovesciamenti, giravolte anche grafiche, con l’uno sopra e l’altro sotto e viceversa: il meccanismo è talmente scoperto che non prevede un finale chiuso ma un loop, perché conta solo l’ingranaggio. La possibilità di accoglierlo o respingerlo è strettamente legata alla disposizione personale nell’accettare il gioco, seguire le regole, divertirsi o no con una cinefilia-orpello, “per bellezza”, fatua come un piercing all’ombelico del cinema. Che comunque, al tempo della fine della memoria, anche cinematografica, non è poi così poco.