Drammatico

PER AMOR VOSTRO

TRAMA

A Napoli, Anna è una moglie e una madre. Ha tre figli, due ragazze e un giovane sordomuto. In giro si dice che il marito faccia i soldi con l’usura. Anna preferisce non vedere e non sapere. Sul set della soap televisiva dove lavora come gobbo umano, incontra il fascinoso attore Michele Migliaccio, che cercherà di sedurla.

RECENSIONI

Giuseppe Gaudino non è un regista come tutti gli altri. E non soltanto perché il suo secondo lungometraggio di finzione arriva a quasi vent’anni di distanza dallo sperimentale Giro di Lune tra Terra e Mare, battezzato a un’altra Mostra del Cinema di Venezia, quella del 1997. Lo è soprattutto perché, nell’asfittico panorama attuale nostrano, costruisce un film magmatico, senza etichette, che attraversa i generi senza sceglierne nessuno, restando in equilibrio – sempre precario, sempre emozionato – fra melodramma folkloristico, film di denuncia, iperrealismo, e malinconico humor partenopeo. Oscillando tra toni e umori diversi, sfiorando il grottesco, Per Amor Vostro trova una sua, strana, unità nella solidità dell’impianto narrativo che, come in una ballata, svolge per capitoli la storia di Anna Scaglione, nata Ruotolo – una Valeria Golino forse mai così brava, mai così intensa. Nella capacità di alterare i registri tracciando una storia di miseria individuale e collettiva, ossessivamente ancorata alla città di Napoli, c’è la memoria di Eduardo De Filippo e del monologo, più volte evocato, “è cosa ’e niente” – da Peppino Girella, tra i pochi sceneggiati televisivi dei primi anni ‘60 capaci di raccontare una cupa vicenda famigliare trovando un equilibrio fra comico e tragico. Vittima sacrificale della famiglia di origine, e costretta a dividere il tetto con un marito mascalzone, Anna si sente “cosa ’e niente”. Sopravvive, ma per quanto ancora? Il suo mondo è in un bianco e nero dai contrasti tenui, quasi appannati. La sua incapacità di aiutare se stessa passa attraverso l’attenzione ai miseri, l’abnegazione silenziosa sul lavoro, il legame simbiotico con i figli. Ma il suo silenzio è anche frutto di una mancanza di coraggio che ha origini lontane. Per quieto vivere, Anna mette la testa sotto la sabbia, e cancella il ricordo, a colori, della bambina coraggiosa che è stata.

Napoli è tutto. Per amor vostro non sarebbe immaginabile altrove. La città si carica di una forza endogena propria, e diventa un orizzonte inclusivo e occlusivo da cui Anna è al tempo stesso intrappolata e salvata. Il golfo, il cielo plumbeo, i vicoli, la campagna, il mare che sembra fondersi  con le mura domestiche. Il legame fra la donna e la città, fra gli eventi e lo sfondo che li ospita, è qualcosa di arcano e inafferrabile, che avvolge il film di un’aura mitica, attraversata dai vapori sulfurei del Vesuvio, dove sono ambientate alcune delle sequenze visivamente affascinanti – con Anna e Michele ripresi in un’alternanza di primissimi piani e campi lunghi. Il realismo amaro della storia – una storia criminale – si stempera così in un orizzonte simbolico in cui passato e presente (Anna bambina e Anna finalmente riscattata) arrivano a toccarsi. Il percorso di Anna, dagli inferi al paradiso, dal Vesuvio alle colombe, è ripetutamente associato a quello di una santa martire cristiana. Per Amor Vostro è barocco ed eccessivo, kitsch e inevitabilmente sopra le righe. Ci sono intermezzi canori, ballate degli Epsilon Indi, canzoni del Quartetto Cetra, dialetto napoletano, vignette che dividono il film in capitoli e introducono i personaggi. E ancora, immagini in sovrapposizione, sequenze accelerate, e momenti semi-onirici (l’acqua che esce dall’autobus). Il bianco e nero è tagliato da improvvisi sprazzi di luce. I colori irrompono e si riversano sulla scena. Ogni elemento compositivo – musica, dialoghi, movimenti di macchina – è esasperato e sovraccarico. Eppure l’essenziale non si perde (quasi mai).

Per Amor Vostro è anche, pur con qualche didascalismo di troppo, un film sulla molteplicità dei linguaggi e sull’incapacità di costruire una narrazione condivisa. Per troppo tempo Anna si racconta delle storie, si rifugia in ipotetiche isole di cartapesta – l’illusione che il marito possa essere un uomo onesto, il sogno di un amore da soap opera fanno da cuscinetto. Anna lavora con le parole, fa da gobbo umano, da suggeritrice sul set di uno sceneggiato. Trascrive su foglie enormi frasi traboccanti di lacrime, di eccessi romantici in stridente contrasto con il grigiore dell’esistenza quotidiana. A casa, Anna torna sulla terra. Cerca un legame con le figlie, litiga con il marito, si prende cura del figlio – un figlio che non può sentire e non può parlare. L’orizzonte domestico e quello della soap sembrano due mondi inconciliabili. Eppure, sono insospettabilmente vicini. Molto più di quanto Anna possa temere. A mettere ordine tra i binari, nel pre-finale, è la voce fuoricampo di una giornalista che riduce la dimensione esistenziale della famiglia Ruotolo a una squallida vicenda di estorsione. In un istante, la prospettiva cambia. E anche chi sta guardando apre – se ancora ce ne fosse bisogno – gli occhi. Il successivo confronto con la figlia, sul terrazzo infuocato dal sole, è quasi pleonastico. Ma il finale, inaspettatamente, sarà un inno alla vita.