TRAMA
Il candido, ingenuo Yuri, vent’anni, vive con le zie in un paesino abruzzese. L’incontro con Agostino – animatore, incantatore di bambini, girovago – per il giovane è una promessa di libertà . Ma il loro viaggio si trasforma in un delirio di prigionia e controllo.
RECENSIONI
Simone Bozzelli è al primo lungometraggio, ma è già un autore. Lo è in forza di un percorso nell’audiovisivo breve che presenta tematiche costanti, un approccio originale alle storie e, soprattutto, uno stile visivo riconoscibile, consapevole, da subito maturo. Una statura, quella autoriale del Nostro, che non si manifesta solo nei premiati cortometraggi (uno per tutti: J’ador vince Sic@Sic a Venezia nel 2020), ma anche nella collaterale esperienza nel videoclip. I Wanna Be Your Slave per i Måneskin è, da un certo punto di vista, la dimostrazione incontrovertibile non solo della tenuta poetica del suo lavoro, ma anche dell’integrità che lo caratterizza: Bozzelli lo gira perché le liriche del brano - e le immagini che ne trae - suonano coerenti con il suo mondo, con un immaginario personalissimo, impastato di ossessioni da assecondare e non tradire.
Patagonia, in concorso a Locarno, costituisce conferma piena e formata di una visione: il regista continua a stare addosso ai corpi dei suoi personaggi - carne e respiri, umori e stati d’animo - restituendo, attraverso questa esperienza fisica primaria, il decadente, malato rapporto che si instaura tra di loro, una nuova claustrofobica relazione fatta di ricatti emotivi, contrattazioni implicite, gestione subdola di sensi di colpa, supremazia e sudditanza psicologiche, concessioni e rifiuti, ribellioni e armistizi, torture vicendevoli. Il ventenne Yuri (Andrea Fuorto) - un’anima candida che nasconde (forse) un disturbo dello spettro autistico - fugge dal paesino abruzzese in cui vive con una triade di zie che si occupano di lui a turno, per seguire Agostino (Augusto Mario Russi), un girovago animatore di feste per bambini, Lucignolo tentatore che gli prospetta una via di fuga fino ad allora mai davvero ipotizzata e cercata. Ne nasce un rapporto tossico che si converte in sbilenco menage familiare, una relazione problematica che il regista rende senza sconti. Bozzelli coniuga la sua storia (scritta con Tommaso Favagrossa) in un continuo tempo presente (il passato si brucia e non torna), immerge lo spettatore in un mondo complesso e autentico che non si fa mai semplice scenario e che vive lontano da quel contesto urbano a cui tanto cinema italiano da vetrina ci ha abituato, dirige con mano felice gli attori - professionisti e non -, trae il meglio dalla giovane crew (per tutti: fotografia di Leonardo Mirabilia, montaggio di Christian Marsiglia).
Se per Bozzelli il desiderio risponde a logiche di economia relazionale, lo stesso corpo diventa l’equivalente universale dello spettacolo delle merci e la seduzione una strategia di produzione: motivi niente affatto sottesi, ma che alimentano una tensione che pretende il primo piano. Così, la macchina da presa, restituisce, delle situazioni messe in scena, innanzitutto la temperatura emotiva. Ed è questo epidermico, vitalissimo girare che fa la differenza: a Bozzelli interessa aggredire lo spettatore con le immagini, non provocarlo con esche tematiche o teoremi narrativi. È per questo che anche Patagonia, come molti dei suoi corti, lo si vive come un thriller in cui il racconto si dipana secondo un mood costantemente ansiogeno, come se la vicenda fosse sempre sul punto di deflagrare, come se si muovesse a un passo dalla tragedia. O come se all’origine ci fosse un mélo (fassbinderiano) che, evaporato, ha lasciato, nelle pieghe di una semplice storia di dominio e sottomissione, un acre sentore di sé.
Il regista gestisce questo grumo emotivo con un sottile gioco di alternanza tra l’asfissia degli interni (il camper come esercizio di oppressione scenica che soffoca personaggi e pubblico) e gli ariosi esterni dell’area nella quale il mezzo è spiaggiato. La terra del rave è la Patagonia dell’anima che si confronta con quella geografica e reale che i due protagonisti vagheggiano, una nazione senza regole nella quale, come nel mondo conforme di cui è periferia, la lotta del desiderio è parimenti impietosa, in bilico tra resistenza, bisogno e manipolazione. Un realismo dell’anima che non accetta le solite, facili morali in saldo: non c’è un luogo migliore di un altro per vivere questo legame malato, l’abbraccio finale non è una premessa alla conciliazione o una promessa di felicità, è la presa d’atto di una dinamica relazionale immutabile che Yuri e Agostino possono respingere o continuare ad accettare.