Drammatico

OLD BOY (2003)

TRAMA

Una volta uscito da una prigionia lunga quindici anni, Oh Dae-Soo va alla ricerca del responsabile del suo sequestro e soprattutto delle ragioni che hanno spinto quest’ultimo a vendicarsi…

RECENSIONI

Se ridi, tutto il mondo riderà con te; se piangi, piangerai da solo. Questa massima ripetuta più volte dal protagonista sintetizza il senso intimo di un’opera, ispirata ad un manga giapponese, la cui originalità risiede, più che nel plot (ennesima disamina sulla genesi dello spirito di vendetta, oltre che ricerca affannosa del senso di un gesto apparentemente gratuito, con tanto di duplice agnizione finale) nella messa in scena, abile intreccio di iperrealismo e non-sense, in cui l’alternanza di lacrime (quelle della giovane cuoca di sushi dalle “mani fredde”, Mi-Do) e di sangue (fatto scorrere dal suo “amante” Dae-Soo) pare dipanarsi non secondo la logica della sorpresa, ma secondo quella della necessità. L’ossimoro del titolo traduce la forma mentis del protagonista, uomo che, paradossalmente fin dal nome, dovrebbe “star bene con gli altri” (Dae-Soo significa questo), prima e dopo la kafkiana reclusione: vi entra vecchio, maturo, alcolizzato,“smemorato” (Old) e vi esce ringiovanito, costretto a ricercare nel proprio passato di piccolo delatore di un collegio cattolico il senso del presente. Ognuna delle quattro mura della prigione privata stimola in lui una “spinta verso”: verso la vendetta, nella parete in cui si allena prendendo a pugni la silhouette del fantomatico sequestratore che ha disegnato; verso l’esterno, la libertà, il sole, la pioggia, la parete con la fittizia finestra, aperta su una distesa verde con tanto di mulino a vento; verso l’altro, la parete dell’ingresso, unico legame con l’altro da sé impersonato da colui che, quotidianamente, gli porta il cibo; verso la riscoperta di sé, nella parete in cui è appeso una sorta di “ritratto di Dorian Gray”, sempre meno dipinto, sempre più specchio in grado di riflettere le “rughe”, le piaghe dell’anima.
Park Chan-Wook, giunto al secondo capito del trittico sulla vendetta iniziato con lo splendido Sympathy for Mr. Vengeange, non teme la contaminazione anzi, pare auspicarla, così come sembra ignorare i pericoli che, in operazioni rischiose come questa, sono sempre in agguato (in tale furia stilistica, il regista almeno in due occasioni si fa prendere la mano, rischiando il cattivo gusto come nel riferimento a Silvia Plath, lettura preferita di una futura giovane suicida…). Tuttavia, le scelte stilistiche adottate (primissimi piani, grandangoli deformanti, voce off, anticipazioni sonore, efficaci interazioni tra flashback/passato e “presente”, dialoghi da programma di divulgazione scientifica, motivati dal fatto che nei quindici anni di prigionia l’unico contatto col mondo esterno del protagonista è stato giusto un apparecchio televisivo) non hanno nulla della gratuità di molto cinema orientale “di genere”, oramai fotocopia di se stesso, iterazione infinita del già visto, ma sono giustificate ed inglobate in uno sguardo profondamente coerente gettato su un mondo surriscaldato, concitato, in cui ogni atto d’amore pare blasfemo o provocato da strani meccanismi derivanti dall’arte dell’ipnosi.
Nella proliferazione di atti estremi – polipi vivi divorati in un sol boccone, denti estratti con metodi che neanche il Laurence Olivier del Maratoneta, mani amputate, bypass con telecomando e lingue tagliate – si coglie in filigrana la disperazione che pare determinare ogni gesto, condizionare ogni movimento: la vendetta non è più un piatto che va servito freddo, ma è una pietanza andata a male, maleodorante, che non libera l’autore dalla pesantezza del gesto che si accinge a compiere, ma che anzi lo lega in maniera ancora più indissolubile ad un passato che vorrebbe dimenticare, e che il protagonista riuscirà a rimuovere solo grazie all’intervento provvidenziale dell’ipnosi, quindi dell’altro. Così il regista: [quello della vendetta] è un tema che mi interessa perché vendicarsi è un comportamento che non ha alcun senso, che non riporta in vita le persone che non ci sono più, eppure che spesso non si può evitare. Pur non avendo senso la vendetta richiede moltissime energie per portare a termine l'azione. Chi si vendica è consapevole del fatto che la sua vendetta non porterà a nulla, ma non è capace di fermarsi. Questa vacuità dell'azione con il dispendio di molte energie è un tema che mi affascina molto dal punto di vista psicologico. L’immensa solitudine dell’uomo che soffre, il consenso che gravita attorno all’uomo felice: per questo, un sorriso forzato nei momenti di massimo dolore pare l’unica soluzione in grado di permettere al protagonista, novello Edipo, di “essere il proprio nome”, di “stare bene con gli altri”.
Meritatissimo Gran Premio della Giuria al Festival di Cannes.

È folgorante l'impatto del film di Park Chan-Wook. La fascinazione del suo scavare con la macchina da presa nella rabbia dei personaggi permette di mettere in secondo piano i limiti di un soggetto tutt'altro che originale, dove i conflitti assumono le tonalità nerastre degli archetipi classici della tragedia. La verità, a lungo inseguita dal protagonista, racchiude il mistero di quindici anni di prigionia privi di apparente motivo. Il furto di un'esistenza nel vano tentativo di saldare conti con il passato, attraverso un sentimento di vendetta che cambia faccia nel corso della narrazione trasformando la vittima in carnefice. Ma non è la razionalità il giusto parametro per entrare nell'universo grottesco e iper-violento messo in scena da Chan-Wook; il regista coreano riesce infatti ad allontanare lo spettatore dalla sicurezza di confini reali per immergerlo visceralmente nella sua personale visione. Un punto di vista che nella violenza, spesso gratuita, ammicca al pulp di Tarantino (non è un caso il Gran Premio della Giuria allo scorso Festival di Cannes, in cui Tarantino era presidente di Giuria) ma si distingue dalle fotocopie d'oriente che invadono con sempre maggior frequenza gli schermi occidentali, tra l'autorialità di geometrie divenute maniera e le troppe piroette marziali in patina ormai sbiadita. In "Old Boy", invece, la regia assume una valenza quasi narrativa perché scandisce i passaggi del racconto, di per sé bislacchi ma lineari, con grande efficacia. Sono tante le invenzioni che spiazzano (una formica gigante in autobus), disorientano (la traiettoria di un martello pronto a colpire disegnata sulla pellicola), shoccano (un polipo mangiato vivo), stridono (l'incontro iniziale con il suicida), ma finiscono per essere tutti tasselli di uno sguardo d'insieme omogeneo, che non insegue le mode, ma le frulla con maestria. Alcuni momenti, complice la ricca colonna sonora e il perfetto montaggio, incollano alla poltrona proprio per il come, piuttosto che per il perché (ad esempio, le suggestive interazioni del protagonista con il flashback rivelatore), ma non si tratta di mera forma, bensì di un modo assolutamente cinematografico per sostanziare i passaggi della sceneggiatura. Inoltre, nonostante la cupezza dell'universo in cui i personaggi si muovono e il tormento alla base delle loro scelte, non è la grevità il fine ultimo del regista. Non mancano, infatti, inaspettati momenti sdrammatizzanti (il protagonista dal parrucchiere, agghindato con cuffietta per signora). Forse fuori luogo, eccessivi, debordanti, ma lontani da un banale rapporto causa/effetto in cui tutto accade nella scontatezza. E nell'omologazione di tanto cinema contemporaneo, "Old Boy" si distingue come una boccata d'aria fresca. Magari un po' satura di gas, ma pur sempre rigenerante.

Il film è eccezionale dal punto di vista visivo. Le luci, il taglio dell'inquadratura, il montaggio non hanno nulla da invidiare ai grandi maestri del cinema hollywoodiano contemporaneo: d'altronde la confezione patinata impeccabile tradisce chiaramente la destinazione internazionale del prodotto. I meriti tecnici del film sono stati ampiamente ripagati dal pubblico (nella sola Corea del Sud ha totalizzato 4 milioni di presenze) e riconosciuti dalla critica (che lo ha premiato a Cannes nel 2004). Quindi da questo punto di vista nulla da dire.
Il punto debole di questa categoria di film di solito è la sceneggiatura. Questa volta però la storia non è così banale come ci si potrebbe aspettare. Il film infatti, ispirato ad uno sconosciuto fumetto giapponese, è la storia di due vendette intrecciate l'una nell'altra, con un colpo di scena finale davvero imprevedibile (degno del miglior Christopher McQuarrie). Non mancano dosi massicce di violenza, senza mai scadere nel granguignolesco; e soprattutto di ironia che da una parte depotenzia l'impatto molto crudo di certe scene di brutalità, e dall'altra rivela la vena più ispirata e originale del film rispetto al resto del panorama cinematografico di questi anni. L'inizio del film è formidabile, con un montaggio serrato e una serie di figure godibilissime. D'altra parte alcune scene lasciano trasparire un regista molto attento alla costruzione dell'inquadratura, ai limiti dell'autocompiacimento. Non si respira epica e neppure lirica, ma un mix sufficientemente riuscito di entrambe. Certo non è Sergio Leone e neppure Quentin Tarantino, ma la mano di Chan-Wook Park è felice. Il finale invece può far discutere: non tanto per la morale che getta sull'intera storia, quanto per la vistosa distonia che fa emergere tra il messaggio coraggioso e alternativo e la messa in scena al contrario sorvegliatissima dal punto di vista tecnico e formale. Ne risulta il ritratto di un autore talentuoso ma anche furbo. Al film sicuramente va stretta sia l'etichetta di horror orientale in stile The Ring, perché di fatto non è un horror in senso proprio: c'è troppa ironia e non c'è tensione ma dramma; sia l'etichetta di thriller patinato in stile Hollywood anni 2000 (quelli dell'ultimo Zemeckis e di M.N. Shyamalan per intenderci). E' un'opera a sé, un giallo inclassificabile, più vicino al pulp postmoderno di Tarantino e Rodriguez piuttosto che ad ogni altro genere, sia per le dosi massicce di humour nero, sia per una certa estetica della violenza che riesce a trasmettere (oltre che per l'iconografia modaiola), e sia infine per l'eclettismo dello stile. In attesa di una più approfondita analisi delle figure e dei temi dell'opera di Chan-Wook Park, è da segnalare l'uso magistrale dei dettagli e dei movimenti della macchina da presa nella costruzione del racconto (a metà strada tra il registro magniloquente di Leone e il tono sardonico di Shyamalan), e quello dello sguardo in macchina e della voce fuori campo per l'espressione di un coinvolgimento straniante a tratti irresistibile (tra la citazione da Hitchcock e la parodia di Bergman). Menzione particolare per la colonna sonora, all'altezza di riunire pezzi di musica elettronica contemporanea con capolavori della classica.