Drammatico, Erotico, Thriller

MADEMOISELLE

Titolo OriginaleAh-ga-ssi
NazioneCorea del Sud
Anno Produzione2016
Durata168'
Trattodal romanzo Ladra di Sarah Waters
Scenografia

TRAMA

Corea, 1930, durante la dominazione giapponese. Sook-hee, ragazza di umili origini, viene assunta come cameriera personale della giovane ereditiera giapponese Hideko che, rimasta orfana di entrambi i genitori, vive reclusa nella grande villa dello zio Kouzuki, suo autoritario tutore nonché ricco collezionista di libri erotici. In realtà Sook-hee è un’esperta borseggiatrice ingaggiata da un altro truffatore, il conte Fujiwara, perché lo aiuti a sedurre Hideko e a mettere così le mani sul suo ingente patrimonio. Tra Sook-hee e Hideko nasce, nel frattempo, una relazione sempre più intima. Ma le cose non sono come sembrano e il piano non andrà come previsto.

RECENSIONI


“Il dolore è un indumento”. Lo si legge su una striscia di carta di riso, poco prima dell’esibizione di Hideko per i facoltosi clienti dello zio bibliofilo e pornomane. Ed è quello che fa la giovane donna: indossa un costume da geisha, indossa il ruolo di un’amante sadomasochistica, indossa il piacere e il dolore (del piacere stesso), tutto per il godimento degli astanti, potenziali acquirenti (di un libro come di una donna), del loro sguardo maschile avido e scarso di immaginazione al quale una semplice narrazione non basta. Manca una xilografia che illustri l’amplesso appena letto e raccontato, vogliono vedere di più, vogliono vedere tutto, assisteranno a una farsa. Si credono soggetti desideranti, sono invece ridotti a manichini come quello calato in scena col quale Hideko simula una pratica di asfissia erotica. Il corto circuito tra racconto femminista e voyeurismo maschile farà saltare più volte la luce nella lussuosa villa teatro della performance.


Con The Handmaiden il regista sudcoreano Park Chan-wook ritorna in patria dopo sette anni e la trasferta hollywoodiana del sottostimato Stoker, del quale qui rimane l’ombra lunga hitchcockiana, e decide di adattare il romanzo Fingersmith (Ladra nella traduzione italiana), già oggetto di una miniserie BBC del 2005, opera della scrittrice gallese Sarah Waters, celebre per la sua reinterpretazione in chiave lesbica del crime novel vittoriano. Nella trasposizione di Park cambia l’ambientazione: dalla Londra del 1862 alla Corea del 1930 sotto l’occupazione nipponica. La lente coloniale, col senso di inferiorità coreana che spinge ad assumere finte identità giapponesi e ad alternare le due lingue a seconda delle finalità da perseguire e dell’immagine da trasmettere, amplifica quello che è già un intreccio di false piste, gioco di apparenze e travestimenti, groviglio di ambizioni e tradimenti, aggiungendo un ulteriore strato di contraffazioni.

Tre atti - il secondo a rivisitare quanto già visto nel primo da un altro punto di vista e con un’altra voce narrante, ricalibrando i rapporti di forza tra i protagonisti – e quattro personaggi: Hideko, ereditiera giapponese algida e ingenua (o così sembra), Sook-hee, ladra consumata nei panni di una cameriera sprovveduta, Fujiwara, finto conte giapponese e autentico falsario coreano, Kouzuki, collaborazionista coreano, zio di Hideko e perverso collezionista di libri preziosi che grazie a un matrimonio con la figlia di un nobile giapponese ha ottenuto la cittadinanza tanto ambita. E tra le due donne un continuo alternarsi di ruoli: padrona e serva, madre e figlia, marionetta e burattinaia, vittima e carnefice. A garantire un angolo di autenticità in un mondo come questo, dove la doppiezza è legge e la menzogna è regola, è l’attrazione sessuale, quella reciproca e libera da manipolazioni e volontà di soggiogazione. L’eros, miccia che accende la relazione amorosa tra le due donne, strumento di emancipazione, fa saltare i doppi giochi (delle donne stesse in primis, sorprese da un’inaspettata e sconosciuta verità), ristabilisce un nuovo ordine, quello del desiderio condiviso per un corpo autentico, per un’identità non più simulata.

Feuilleton gotico - con tutto il tradizionale corredo di mogli impazzite, governanti infide, scantinati proibiti, sottobosco criminale e ospedali psichiatrici - percorso da una robusta vena satirica, romance lesbico beffardo, The Handmaiden è un film ibrido quasi ad immagine della lussuosa magione di Kouzuki che un architetto inglese ha progettato con un corpo centrale in stile vittoriano e due ali in stile giapponese. Tra le sue stanze si rincorrono, si specchiano e si incrociano suggestioni da Est ed Ovest: il feticismo di Hitchcock e i melodrammi sudcoreani di Kim Ki-young, Sade e i pinku eiga, le sottili perversioni nascoste tra le trame contorte di Charles Dickens e Wilkie Collins e la tradizione shunga delle stampe erotiche giapponesi. Park, con la sua solita perizia formale, ricorre a uno stile ancor più seducente del solito, che lavora sulle superfici e le apparenze, sulla preziosità dei tessuti e dei monili, sull’opulenza scenografica e la vertigine di dettagli voluttuosi, fino a lambire un consapevole gusto patinato che avviluppa l’esuberanza narrativa. La sua macchina da presa, fluida e sinuosa, carrella instancabilmente attorno ai personaggi, dentro e fuori il décor della villa, rincorre le traiettorie degli sguardi, asseconda le diverse voci narranti e al contempo rivela la parzialità e l’inganno di qualsiasi soggettiva (e il regista è il primo dei bugiardi, Park lo sa), usa occhi, lenti, specchi, fessure, vetrate come punteggiatura narrativa, solletica il voyeurismo dello spettatore esplicito e implicito (noi, il pubblico).

Il rischio dietro l’angolo è quello del catalogo sontuoso di un cinema pacificato, privo di irrisolvibili tormenti, sconcertantemente divertito. Ma non è più tempo di vendette, forse è arrivato il tempo dell’amore. Perché alla fine The Handmaiden altro non è che un racconto (im)morale d’amore e liberazione (attraverso l’amore e il sesso). Mantenendosi maliziosamente in bilico tra il triviale e l’estetizzante, l’eleganza e la volgarità, nella messa in scena di un classico del wet dream maschile – il sesso lesbico – Park riflette anche sull’erotismo cinematografico e sul suo potere di suggestione, rovesciando derisoriamente il male gaze contro se stesso. L’arrogante e dispotico desiderio virile, alimentato dall’idea della sottomissione e di una presunta superiorità, è destinato alla sconfitta in una ghignante sequenza di mutua castrazione, tra dita tranciate e sigarette avvelenate. Le due donne, eliminando progressivamente le differenze di gerarchia, conquistando un territorio di assoluta parità, si riappropriano di un testo erotico scritto per il godimento maschile, lo mettono in scena per il proprio piacere alla luce di una femminilissima luna piena, intrecciando specularmente i loro corpi in una stanza – finalmente – tutta per sé.