
TRAMA
Texas, 1980: Llewlynn Moss è a caccia di antilopi quando si ritrova sul luogo di un regolamento di conti (senza superstiti) tra narcotrafficanti. Si impossessa di una valigetta contenente due milioni di dollari che segnerà l’inizio delle sue sventure…
RECENSIONI
Cinema glaciale, autoreferenziale, citazionista, che manipola il genere per metterne a nudo, e (quindi) volontariamente incepparne, i meccanismi di funzionamento. Ma non solo. Perché prepotente si insinua una filosofia del disincanto, un pessimismo co(s)mico, un’elegia delle tragedie e delle miserie umane alle quali, però, non si riesce mai a credere veramente: colpa di una ludica teoreticità di fondo così esibita, onnipresente e onnicomprensiva da interporre distanze siderali tra il contenuto e la forma, a tutto “vantaggio” di quest’ultima. Questo non è l’inizio della recensione dell’ultimo film dei fratelli Coen, questo è un “inizio campione” riferibile (credo, temo, spero) a gran parte della filmografia dei fratelli Coen.
McCarthysmo
La (questa) recensione di Non è un paese per vecchi dovrebbe invece partire dal romanzo di McCarthy, il cui “trattamento” ci dice molte cose sui Coen, sul loro cinema e sul film, riportandoci infine al non-inizio. Intanto si tratta di un romanzo dai forti tratti coeniani, romanzo al quale i Coen, infatti, dimostrano una fedeltà di fondo pressoché assoluta. Ci sono dati macroscopici: l’ambientazione, la variegata galleria di personaggi, la progressione drammatica spesso grottesca e “immotivata” (il vero innesco narrativo è l’assurda decisione di Moss di tornare nel deserto con la tanichetta d’acqua), sono tutti aspetti nei quali non è difficile riconoscere un idem sentire McCarthy-Coen(s) e in tal senso non stupisce l’aderenza, spesso letterale, del film al libro. Così come molto dev’essere piaciuta ai fratelli la “reticenza ellittica” attraverso la quale McCarthy gioca con le aspettative del lettore, frustrandone le (legittime) attese attraverso la semplice negazione (nessuna resa dei conti), la svolta inopinata (la morte improvvisa di Moss) e soprattutto la scelta di far “precipitare” tali svolte come dati di fatto, relegate in ellissi e frettolosamente archiviate. (se possibile, i Coen accentuano tale tendenza: il dialogo che precede l’uccisione di Carla Jean da parte di Chigurh è riproposto letteralmente, passo per passo, ma la sequenza si chiude prima del “E le sparò” col quale McCarthy chiude, pur laconicamente, l’episodio). Ora, il punto è che nel romanzo tali scelte anti-pathos-logiche si accompagnano a un decis(iv)o slittamento di significato… quello che era iniziato come un western-thriller crepuscolare non privo di azione, cioè, lascia progressivamente sempre più spazio alle riflessioni etico-morali di Bell, la cui frustrazione esistenziale riproduce e replica, traslata, quella del lettore [Bell “si arrende” perché si sente (è) ormai impotente e inutile in una terra che non fa più per lui, chi legge entra con lui in sintonia empatica (anche) perché il romanzo che ha tra le mani non è più quello che si aspettava di avere] e diventa, in ultima istanza, il senso ultimo dell’opera. Tale slittamento, nel film rimane in potenza più che nei fatti e non risulta così evidente, così totalizzante (alcuni dei “tagli” più importanti riguardano proprio il personaggio di Bell); come se i Coen avessero voglia di sporcarsi (finalmente?) le mani con i sentimenti ma non ce la facessero a “lasciarsi andare” fino in fondo, completamente, troppo innamorati di una struttura narrativa così perfetta e diabolica per riuscire a utilizzarla come semplice “mezzo” con cui raggiungere un “fine”. (Altro indizio che depone a favore della consueta distanza dei Coen dalla materia trattata è l’emersione netta del tipico distacco ironico coeniano, apprezzabile anche in particolari non di poco conto, come la caratterizzazione di Chigurh in chiave schiettamente grottesca - freak).
Questo è un possibile finale
Dunque? Dunque, dopo due prove oggettivamente interlocutorie, abbiamo un altro film “pienamente” dei fratelli Coen, dalla prosa cinematografica inappuntabile, sempre più asciutta e sempre più restia a farsi sedurre dalle lusinghe del virtuosismo, tanto che si ricordano solo delle inquadrature “marcate” nei primi minuti di pellicola (la plongée a spirale sul primo piano di Chigurh che sta strangolando il poliziotto) e poco altro di evidente. Ma si ricordano di più, e più volentieri, altri piccoli dettagli che fanno la differenza, momenti nei quali i Coen riescono a costruire tensione facendo percepire il respiro del tempo (il dettaglio sull’involucro della caramella che lentamente “riprende posizione”), tracciano enigmatici parallelismi tra inquadrature suggestive (la soggettiva “riflessa” e deformata di Chigurh/Bell), architettano sequenze di suspense impeccabili in montaggio alternato (il primo non-incontro tra Chigurh e Moss) e ne costruiscono altre altrettanto efficaci (l’incontro vero e proprio tra i due) col senno di poi significanti (di Chigurh si avvertono solo la presenza, l’ombra, gli spari e, per pochi secondi, un’immagine sfuocata; Chigurh “è un fantasma”, si dirà dopo). E dunque, e infine, la illustrata, parziale trasgressione della fonte letteraria non va affatto letta come un motivo di “delusione”, e non solo perché (ovviamente) la fedeltà alla fonte non è certo un valore in sé, ma soprattutto perché, nel bene e nel male, questa trasgressione è solo una semplice conferma coeniana.

Impeccabilità: concetto criticamente disgustoso. Applicato a questo film vanificherebbe la colossale impresa registica di Joel e Ethan Coen. No Country for Old Men è il Fanny & Alexander dei fratelli di Minneapolis: la summa assoluta del loro cinema. Ma non si tratta di impeccabilità. Lo stile di questo noir letteralmente sovrumano non deve essere scambiato per bovina ottemperanza a un sistema normativo di rappresentazione, a una sorta di galateo filmico (idea inevitabilmente connessa al cencioso aggettivo “impeccabile”), ma appartiene pienamente al dominio della creazione cinematografica. Pur adattando il poderoso romanzo di Cormac McCarthy, i fratelli Coen tolgono il potere di significare alla parola e lo consegnano alle immagini. Anzi, la potenza semantica è, qui e ora, sovranamente cinematografica. Una messa in scena così suprema e imperiosa è dato trovarla soltanto nel cinéma par excellence di Sua Maestà Jean-Pierre Melville. Ed è a Jean-Pierre Melville, inesorabilmente, che i fratelli Coen si rifanno. Le Samouraï costituisce costante sottotesto: Anton Chigurh (glacialmente “eseguito” da Javier Bardem) è la versione aggiornata e cingolata del Frank Costello (Jef nell’originale) di melvilliana memoria. Solo, inflessibile e implacabile, Chigurh è un cane sciolto votato alla consacrazione di un codice morale così elevato da confondersi col destino (emblematico il suo lanciare monete fatali), artefice di una lotta contro tutto e tutti (proprio come Jef), offeso nel corpo ma illeso nello spirito (l’automedicazione del cratere nella coscia richiama la disinfezione della ferita all’avambraccio di Costello). Diversamente dal Delon melvilliano, però, Chigurh non cerca la morte come estrema testimonianza della propria autonomia morale, la somministra a tutti gli irresponsabili che incontra sul suo cammino. Irresponsabili perché (in)colpevoli e perché superficiali: dal primo poliziotto che gli volta incautamente le spalle alla moglie indifesa di Llewelin Moss (la spaurita Kelly MacDonald), passando per lo sbruffonesco Carson Wells (un impagabile Woody Harrelson). Detto in modo molto brutale, Anton è l’etica rinnegata del postcapitalismo, la morale che, rigettata e derisa dall’economia, si rivolta, feroce e scatenata, contro l’entità che l’ha espulsa, distruggendone sistematicamente l’irresponsabilità. Chigurh è l’immagine nera e inafferrabile della Giustizia emarginata e adirata. Ancora Melville e il suo esercito di cavalieri della morte, testimoni poetici di un universo al tramonto, ma un Melville che ha convertito la nostalgia in incontrollabile ferocia vendicativa. È una sublime danza macabra quella orchestrata dai fratelli Coen, una danza macabra ballata sulle macerie della civiltà: testamento, glorificazione e canto funebre per l’umanità e le sue rovine. Un film perfetto, micidialmente perfetto. Money for nothing.
NB- Non integrandosi spontaneamente alle riflessioni sviluppate nel commento, ho lasciato fuori un paio di riferimenti cinematografici a mio avviso determinanti (soprattutto il primo) per inquadrare correttamente il film dei Coen: lo spettacolare Chi ucciderà Charley Varrick (1973) di Don Siegel e, ipotesi eccentrica, lo splendido Missouri (1976) di Arthur Penn. Dovevo citarli, altrimenti sarei stato fisicamente male. Ah, dimenticavo: Josh Brolin (Llewelin Moss) e Tommy Lee Jones (lo sceriffo Ed Tom Bell) sono, se possibile, ancora più in parte di Bardem. Ma la mia personale palma la assegno senza esitazioni a Tess Harper: alla sua Loretta Bell sono sufficienti un paio di battute e un paio di sguardi per stamparsi indelebilmente nella memoria. Monumentale.

Adattamento scientifico del romanzo di Cormac McCarthy, il film dei Coen è perfetto. Con uno scarto rispetto alla loro filmografia, i Nostri tradiscono l'antica infedeltà ai testi letterari e si applicano all'adattamento classico. Il loro peculiare rapporto con la letteratura si è sempre risolto in umori, ambientazioni, frammenti, personaggi, temi, indizi e tipi umani rubati, rielaborati, decontestualizzati; mai nessuna esclusività (ma molteplici referenti), mai nessuna fedeltà (ma libere associazioni, dissacrazioni e persino sovvertimenti di codici e spirito dei testi - o dei mondi letterari - di riferimento)[1]. No Country for Old Men, invece, traduce le scarne e densissime pagine di McCarthy con ineccepibile fedeltà: alla lettera, all'intreccio, alla fabula, ai personaggi, allo spirito. Al vecchio e malinconico sceriffo Bell (i cui monologhi si alternano, sulla carta, alla narrazione in terza persona) è subito confermato (con voce over su paesaggi senza uomini) il ruolo di (impotente) interprete morale dei fatti e dei tempi che corrono: s'imprime così allo spettatore quella stessa peculiare curvatura dello sguardo già imposta al lettore: si segue con partecipazione identificatoria il fuggiasco Moss, si prova invano l'approccio col glaciale Chigurh, ma si tenta comunque di trarre le fila morali della faccenda alla maniera del buon Ed Tom Bell. L'esito è mortifero: l'anelito etico dello sceriffo è tanto intenso quanto vago e inutile; Chigurh è alterità irriducibile ai codici di lettura della nostra società. Il trionfo di un male incomprensibile ed esatto è disfatta etica inappellabile e definitiva.
I Coen eseguono il loro compito in forme rigorosissime, pregne di cinema purissimo ma soprattutto del testo di McCarthy: un testo letterario che non può non dirsi originario (e, persino, originale) rispetto a quello filmico. La glaciale perfezione di una copia.
[1] Un esame attento delle fonti letterarie "d'ispirazione" dei Coen è quello fatto da Paul Coughlin in Sense of Cinema

Ricevo una mail da Francesco Asaro che ritengo semplicemente cruciale per cogliere alcune implicazioni del film dei Coen. Captando la natura proiettiva di No Country for Old Men, Francesco riconduce la forte componente simbolica del film ad un onirismo di fondo. La sua intuizione mi ha lasciato semplicemente di sasso per brillantezza e per il modo in cui si incastra, arricchendola ulteriormente, con la riflessione etica sviluppata da me e da Roberto Tallarita nei commenti precedenti. Ecco le sue folgoranti osservazioni sul film: 'Mi è sembrato un racconto (anche nella costruzione) molto psicanalitico. Onirico. La fuga inconcludente di Moss mi ha fatto pensare alle fughe nei sogni, quando uno cerca di scappare e non riesce a correre. Insomma, a inseguire Moss è il suo senso di colpa (ha rubato dei soldi, vuole essere punito, questo lo spinge a tornare sulla scena del ritrovamento della valigetta, non certo portare l'acqua a un moribondo). Un senso di colpa che assume le forme indistruttibili di Anton Chigurh. Mentre Moss e lo sceriffo rimandano a una tipologia sociale, il killer è chiaramente un figlio dell'inconscio (pensa alla pettinatura e alla camminata da marionetta, quando sorride sembra che dei fili invisibili gli tirino la faccia). Ma forse, in generale, Anton Chigurh è la materializzazione del senso di colpa dell'America, del Capitalismo. La nemesi del Capitalismo'. L'estetica del film, basata sulla dilatazione delle durate, sulla esasperazione dei dettagli e sulla enfatizzazione delle ombre, si sposa alla perfezione con questa lettura oniroide, ricollegandosi tra l'altro al doppio sogno finale di Ed Tom. Sogno che contiene allusioni a del denaro perso e alla figura del padre (ma più giovane di lui) come un portatore di luce (un lucifero, quindi) dello stesso colore della luna (le fiammate degli spari?) all'interno di un corno (il silenziatore del fucile di Chigurh?). Un guizzo interpretativo, quello di Francesco, che apre dunque nuove prospettive e offre nuovi stimoli critici per la comprensione di un testo che troppo sbrigativamente è stato liquidato come un noir superficiale.

That is no country for old men. The young
in one another's arms, birds in the trees - those
dying generations - at their song, the salmon-falls,
the mackerel-crowded seas, fish, flesh, or fowl,
commend all summer long whatever is begotten,
born, and dies.
Caught in that sensual music all neglect
monument of unageing intellect.
(Sailing to Byzantium, William Butler Yeats)
Vive in silenzio il dio che ha purgato questa terra
con sale e cenere.
(Non è un paese per vecchi, Cormac McCarthy)
Dopo una parentetica escursione sui binari della sophisticated comedy (Intolerable Cruelty e The Ladykillers) con derive di studiato (e non sempre riuscito) sabotaggio nei confronti del genere, i Coen sembrano voler riazzerare il loro cinema o solo praticarvi un'operazione di hegeliana aufhebung ripartendo da modi linguistici acquisiti per dare sfogo a novità formali di insolita bruciante immediatezza. Innanzitutto appaiono inediti il rigore e la sobrietà della rappresentazione con i quali organizzano il materiale diegetico e ne dispongono la mise en scène. Il volo pindarico della m.d.p., stilema riprodotto quasi con sacrale sistematicità nell'opus coeniano, almeno da Miller's Crossing, The Big Lebowski, lascia il posto a una regia recisamente più calibrata quasi a volerne purificare la forma, scarnificandone lo stile per renderlo più asciutto e aderente al costrutto narrativo. Un senso della messa in forma dunque maggiormente geometrizzato e sottratto all'eccesso visivo.
Tale ripartenza avviene nella più intima prossimità del romanzo omonimo di Cormac McCarthy, non sembra infatti casuale il fatto che No Country for Old Men rappresenta il primo film coeniano di derivazione direttamente letteraria (fatti salvi i sublimi hammettismi di Crocevia della morte). Al di là della differenza (verrebbe da dire 'ontologica') tra codici espressivi, è rinvenibile un intento estetico comune tra scrittore e cineasti nel narrativizzare il senso di crisi di una nazione per tentare di ricollocare il disorientamento esistenziale dell'individuo che la abita. Se tutto, o quasi, il cinema americano dei seventies ha raccontato con amarezza, disillusione e molto spesso ferocia, la crisi di un popolo, demitizzando l'american dream e demistificandone i simboli, annunciando con allucinata lucidità il senso della fine, McCarthy e i Coen decidono di riesplorare quel tracciato cronologico ricalandosi nel medesimo scenario apocalittico per riragionare di nuovo, inattualmente e implacabilmente sul nichilismo dell'eskaton. Non può dunque apparire semplicemente come un ludus, un 'gioco per bambini' (cosa che per i Coen evidentemente non è mai stata), la contaminatio prestabilita tra western e noir (o anche thriller), come poteva sembrare scherzosamente ne Il grande Lebowski, perché qui, al pari di Blood Simple e di Fargo, la 'dialettica geografica' tra aperture western e ocllusioni urbane, tra stazioni on the road e passaggi di frontiera che si fanno zone ad altissimo coefficiente di pericolo (cinemato(po)graficamente riconoscibili dai tempi de L'infernale Quinlan), diviene elemento massicciamente costitutivo. Il racconto di queste 'ultime cose' di un'umanità già finita diventa procrastinabile farragine di personaggi che credono di saper autodeterminare il proprio destino, dando luogo a una caccia reciproca assurda e perpetua, nella febbrilità dei transiti di strade e hotel nei quali illudersi di nascondere la propria scelta necessitante e meccanicisticamente votata al nulla. Vengono in mente le errabonde metamorfosi del cinema peckinpahiano, le virate dei percorsi psicologici da Il mucchio selvaggio a Voglio la testa di Garcia, laddove l'epica collettiva della sconfitta diveniva catastrofe esistenziale individualizzata. Llewelyn Moss, Ed Tom Bell, Anton Chigurh, sono espedienti ancora una volta simbolici per descrivere la fine (di una geografia, di un'epoca, di un'etica, quella stessa fine sacramentata da Johnny Caspar/John Polito in Crocevia della morte). La verità è che i fatti del postmoderno (chiamiamoli così, senza indagare troppo sul termine), 'non è colpa di una cosa sola' (la droga, l'assenza di principi, le sporche guerre), non rendono vivibile il Paese - ogni Paese - per nessuno, e mentre Llewelyn Moss è l'uomo medio colto nella sua colpevole ingenuità di essere potenzialmente addetto alla caduta per cui ogni scelta implica una conseguenza, lo sceriffo Bell e il terrificante Chigurh sono le due facce della stessa medaglia (infatti nel film è rintracciabile con calcolata evidenza questa simmetria dei due personaggi, per tanti versi speculari: le loro sagome si sovrappongono differite negli schermi di un televisore e si sorvegliano nella concavità riflessa degli incavi delle serrature), o di quella monetina che Chigurh fa spesso roteare in aria. Il primo non è il vecchio che contrasta il nuovo, come la classica ratio western lascerebbe supporre, perché sia Bell che Chigurh appartengono a un passato in qualche modo condiviso, a un mondo non così eterogeneo, quello dei giusti e dei fuorilegge, dei dannati e degli eroi. Bell è quella parte di uomo onesto che giunge stanco alla sempiterna lotta col 'bestiame', all'ineluttabile consapevolezza che il male, oltre ad essere di sconcertante endemicità, è inarrestabile, è l'umano desiderio di rinuncia al combattimento quotidiano. Chigurh (notare come i Coen si soffermino in ogni inquadratura a catturarne il sembiante quasi ieratico dietro l'aspetto di un folle con acconciatura fuori da ogni moda) è figura ancestralmente più mitica e complessa, è principalmente l'archetipo di una nemesi che non può essere evitata, arriva come un angelo della morte per ristabilire un qualche ordine all'interno di un caos (quello dell'illegalità, o del male medesimo in un piano più metafisico), per regolare i conti con la vita e con quelle decisioni che implicano kierkegaardianamente sempre un 'cadere'. È il fondamento di un male comunque organizzato in un insieme di regole, da una 'morale'. Entrambi, Bell e Chigurh, nella loro difficoltà schizofrenica di adattarsi a un presente senza principi, sono fantasmi di un passato inteso come mitologia dei 'good old times', sopravanzati dall'apocalisse del nuovo che incombe, dall'irrefrenabilità di un futuro impazzito, inevitabilmente già morto. In questi termini No Country for Old Men si annuncia nella tracciatura filmico-letteraria come necrografia della Storia.
