TRAMA
Si forniscono brevi cenni storici sulle origini di Leatherface e della sua famiglia adottiva. Il resto è il solito “chainsaw massacre”.
RECENSIONI
Che Liebesman non fosse il nuovo Orson Welles lo si era intuito dal paratelevisivo Al calare delle tenebre, irricevibile scemenza che al suo meglio navigava nella routine registica più risaputa e scontata. Michael Bay ha comunque deciso di affidargli un’operazione a suo modo importante come il prequel diThe Texas Chainsaw Massacre, ottenendo un oggettino piuttosto innocuo. The Beginning non ha intanto pretese onnicomprensive – ossia – non ambisce a dire qualcosa di realmente incisivo sul Mito della famiglia Hewitt tutta. Il legame stretto ed esclusivo è col remake di Nispel e il “background” creato ex nihilo si limita a mostrarci, nel prologo, la nascita di Thomas Hewitt/Leatherface (in un mattatoio…), condensare i suoi primi 30 anni di vita nei titoli di testa (a conti fatti, quasi un’ellissi pura e semplice) per poi aggiungere piccoli dettagli già moderatamente interessanti (il matrimonio con la motosega, la prima faccia di pelle) e presentati, per giunta, in modo frettoloso e maldestro. Veniamo anche a sapere qualche perché sulle new entries del 2003 (la divisa da sceriffo di Hoyt, le gambe amputate di Zio Monty) ma insomma, stavamo comunque già dormendo sonni tranquilli. Il resto del film è, nella sostanza, un nuovo, semplice remake dell’originale (ragazzotti sperduti, follia, inseguimenti, sangue) infarcito di topoi cinehorrorifici fossilizzati (il cattivo accorre - la chiave dell’auto non si trova) e servito da una regia senza idee che trova nel binomio macchina a mano/primi(ssimi) piani il suo unico tratto caratterizzante. Sottotrama “vietnamita” pretestuosa, gore medio-alto.
Dopo il pessimo Al calare delle tenebre, c'era da temere il peggio vedendo la regia di Non aprite quella porta: l'inizio affidata a Jonathan Liebesman (da non confondere con Jeff Lieberman, a cui dobbiamo I carnivori venuti dalla savana e l'interessante Satan's little helper). Invece il prequel del film culto di Tobe Hooper, qui anche produttore insieme all'energico Michael Bay, si dimostra superiore alle deboli aspettative. L'immaginario a cui si aggrappa è quello rispolverato da Marcus Nispel nel 2003, a sua volta solo un poco modaiolo ma tutto sommato fedele allo spirito dell'originale. Il motto dei produttori (New Line Cinema, Texas Chainsaw Productions, Platinum Dunes, Next Entertainment, Vortex/Henkel/Hooper Production), dopo l'inaspettato successo del remake, si è mimetizzato in un remunerativo "se non puoi convincerli, confondili". E così lo spettatore si trova attratto da un prequel che in fondo è l'ennesima riproposizione della stessa storia di sempre: giovani bellocci se la danno a gambe, o almeno ci provano, mentre i cattivi vogliono farne polpette. A giustificare l'operazione, oltre al tentativo di batter cassa, la gustosa genesi degli appartenenti alla famiglia più malata del Texas, risolta brillantemente nella prima parte. Migliore della media del "genere" anche la carne da macello, sia per quanto riguarda i personaggi (pur nella elementarità dei conflitti, i caratteri provano a creare contrapposizioni in cui credere), che gli interpreti, (in)evitabilmente strappati alle pagine patinate di riviste di moda ma anche espressivi. La controparte malsana è ben rappresentata dagli stessi protagonisti del remake di Nispel, in cui si distingue l'ottimo R. Lee Ermey, capo della gang antropofaga improvvisatosi agghiacciante tutore della legge. Quanto a Liebesman, non imprime particolare personalità alle sequenze, ma svolge diligentemente il non facile compito riuscendo a rendere oliata una vicenda trita e ritrita senza scivolare in cedimenti vistosi. Dalla sua ha anche un efficace apparato scenografico (Marco Rubeo), una fotografia prevedibilmente seventy ma accurata (Lukas Ettlin), ottimi effetti speciali, un contributo sonoro asciutto e teso (ancora Steve Jablonsky) e una sceneggiatura (David J. Schow e Sheldon Turner) che a parte qualche caduta (il personaggio del motociclista hippie, alcune battute a presunto effetto, lo sbrigativo pre-finale nel mattatoio) funziona a dovere. Il disturbo che ne deriva non lascia particolari strascichi, con una paura dovuta in gran parte al disgusto per l'elevata dose di gore, ma nell'immediato la corsa sulle montagne russe dell'orrore imbastita da Liebesman toglie il fiato e mette la razionalità in "stand-by". Per cui ci si lascia trasportare nel sadico gioco al massacro dimenticando la totale mancanza di originalità e l'assenza di un sottotesto politico forte (la famiglia coacervo di tutti i mali è ormai un dato di fatto e l'accenno al Vietnam è solo esornativo). Un interrogativo, però, scaturito da pura e semplice curiosità e con un intento tutt'altro che censorio (al limite un po' provocatorio), riesce a posteriori a farsi strada: perché è ammissibile essere testimoni, con un timido divieto ai minori di 14 anni, di una esasperata pornografia della violenza, mentre la pornografia del sesso è ancora tabù? Come dire, meglio vedere fare a pezzi un uomo piuttosto che un pompino ben fatto! Ma questo, decisamente, è un altro film!