TRAMA
Adelaide Wilson torna nei luoghi di mare dell’infanzia per una sospirata fuga estiva con il marito Gabe e i loro due figli Zora e Jason. Oppressa da inspiegabili e irrisolti traumi del passato e preoccupata da una serie di strane coincidenze, Adelaide sente la propria paranoia crescere fino ai livelli d’allerta, quando diventa certa che qualcosa di orribile stia per accadere alla propria famiglia. Dopo aver passato una nervosa giornata con i propri amici, Kitty e Josh Tyler e le loro due figlie gemelle Becca e Lindsey, Adelaide e la sua famiglia fanno ritorno alla residenza dove trovano le silhouettes di quattro figure che li aspettano al varco d’ingresso (dal pressbook).
RECENSIONI
Al di là di una prima impressione sostanzialmente contraddistinta dalla perplessità, sono convinto che Noi abbia bisogno di un’analisi meno frettolosa. Ovviamente, se paragonato a Scappa, il secondo lungometraggio cinematografico di Jordan Peele lascia un tantino interdetti: l’immediatezza, l’incisività e la linearità che caratterizzavano il suo bizzarro esordio non si ritrovano affatto in Noi, film che non si accontenta di mettere in scena un apologo antirazzista dai tratti surreali, ma che col passare dei minuti si complica a dismisura fino a creare una sensazione di sconcerto permanente. Per parlare chiaramente, Scappa era un film di genere avvincente con un messaggio politico inequivocabile (leggi: “i bianchi sfruttano i neri fino a impadronirsi fisicamente dei loro corpi e imprigionare le loro menti”), mentre Noi è un film in cui il genere opera in maniera molto meno appassionante e il messaggio politico risulta molto più criptico. Non più una stravagante allegoria dello schiavismo occulto che ancora imperversa sotto forme apparentemente civili, insomma, ma, come suggerisce il titolo originale Us, una rappresentazione distorta degli United States che risucchia nella sua giostra orrorifica tensioni e contraddizioni dell’oggi. Non stupisce quindi che il vertiginoso ampliamento del compasso tematico possa lasciare sbigottiti, soprattutto dopo una sola visione.
Ma, e questo mi pare già un dato di cui tenere conto, Noi è fin troppo apertamente un film che chiede allo spettatore più di una sola visione: a partire dalle prime inquadrature, è più che evidente che si tratti di un film frequentativo, vale a dire uno di quei film che richiedono visioni multiple per essere apprezzati pienamente. Già questo rifiuto del mordi e fuggi, dell’esperienza cinematografica che si consuma nell’atto stesso della visione mi sembra un gesto (politicamente?) rilevante: alla serialità delle maratone televisive o al godimento steroideo del cinema supereroico, Peele oppone un labirinto di segni, un mosaico da ricomporre con attenzione maniacale e pazienza certosina. Ma Noi fa molto di più: trascina moduli e principi compositivi mutuati dall’estetica cinematografica più avanzata in territorio pop, rendendoli sì meno suggestivi e scardinanti, ma, in compenso, saggiandone la tenuta e allargandone il campo d’azione. Un tempo si sarebbe definita midcult un’operazione simile, ma oggi mi pare più ragionevole rovesciare la prospettiva: non è più la riproposizione di forme e stilemi alti in un contesto basso a svilire i primi e a nobilitare subdolamente il secondo, è la riproposizione stessa in un contesto basso ad avvalorare l’efficacia e certificare la bontà di quanto elaborato a un livello superiore. Detto altrimenti, quella attuale mi sembra una dinamica diametralmente opposta alla tradizionale logica del kitsch: oggi l’abbassamento di livello convalida la potenza espressiva di ciò che è stato formulato in un contesto più elevato e culturalmente qualificato.
Chi guarda? Dalla Lost Girl alla Mirror Girl
Lo sforzo per enucleare i tratti distintivi dell’estetica cinematografica contemporanea più avanzata l’ho già fatto qui, sicché rimando direttamente a quanto scritto per eventuali delucidazioni. Ma in questa sede mi prendo consapevolmente e responsabilmente il rischio di definire Us l’INLAND EMPIRE di Jordan Peele. Perché mai? Semplice, perché la costruzione narrativa di Noi può essere accostata, con tutti i distinguo del caso, a quella del film di Lynch. Non voglio dire che ci sia un’analogia voluta, beninteso, intendo sostenere più ragionevolmente che il prologo di Us presenta delle affinità con quello di INLAND EMPIRE, in cui una solitaria Lost Girl guarda il televisore e partorisce una storia surreale con conigli, doppi e omicidi. Ricorda qualcosa? Ripeto: non voglio dire che Jordan Peele abbia cercato di imitare, omaggiare o rifarsi a David Lynch (la cosa si ridurrebbe a uno sterile giochino citazionista), intendo invece dire che, volendo, la composizione narrativa dissimulata nel prologo di INLAND EMPIRE (è la Lost Girl la vera sorgente del racconto) si può rintracciare anche in Noi. Naturalmente, come accennato nel paragrafo precedente, il principio compositivo non possiede più la stessa carica scardinante e destabilizzante che aveva nel film di Lynch e può benissimo passare inosservato o essere considerato un semplice antefatto (la piccola Adelaide guarda la tv nel pomeriggio e la sera va coi genitori al parco di divertimenti di Santa Cruz). Ma è altrettanto vero che, passando dalla sfera del cinema autoriale/sperimentale a quella del cinema autoriale/commerciale, questa porta d’ingresso alla finzione mantiene un forte coefficiente di ambiguità.
L’ambiguità risiede esattamente nella medesima e paradossale ipotesi narrativa: e se anche in Noi tutto quello che vedremo dopo fosse soltanto una finzione partorita da Adelaide davanti al televisore? Ovviamente, alla lettera non è e non potrebbe essere così: anche con tutta la sospensione di incredulità del mondo non ci si potrebbe bere che la piccola Adelaide (Ashley McKoy), 9 anni nel 1986, si sia immaginata internet, smartphone, smart speaker e programmi governativi di clonazione sotterranea. No, il film prende tutta un’altra strada e quella parentesi televisiva resterà un breve antefatto utile a collocare cronologicamente e geograficamente - realisticamente, in una parola - la vicenda. Ciononostante qualcosa di ambiguo persiste per tutto il film. Non più una vera e propria ipotesi, ma una sorta di ipoteca narrativa: lo sguardo che apre il film è quello della piccola Adelaide (addirittura in soggettiva: vediamo soltanto quello che lei sta vedendo in quel momento, esattamente dal suo punto di vista di bambina di 9 anni) e molti elementi che confluiranno nella rocambolesca vicenda a cui assisteremo sono già racchiusi in quel colpo d’occhio. Insomma, seppur virtualmente e ipoteticamente, la piccola Adelaide genera una storia immaginaria assemblando i materiali visivi e narrativi che la circondano e di cui dispone: le videocassette di C.H.U.D. e dei Goonies, il servizio meteorologico con l’allarme tempesta previsto per la sera, il promo di Hands Across America, quello della spiaggia di Santa Cruz (la stessa di Ragazzi perduti di Joel Schumacher, a cui il film di Peele lancia una strizzatina d’occhio durante la passeggiata nel parco dei divertimenti) e, soprattutto, la propria immagine riflessa con tanto di coniglietto bianco di peluche a portata di mano. Un film sulla figura del doppio non richiede forse una doppia lettura?
Come guarda? Infantilizzazione dello sguardo e inquadrature ad altezza bambina
La prima conclusione che si ricava da questo discorso è che, scendendo dalla sfera del cinema autoriale/sperimentale a quella del cinema autoriale/commerciale, il principio compositivo del “film mentale sgorgato dall’immaginazione del personaggio principale” perde indubbiamente rilevanza: della capacità di riconfigurare retroattivamente l’intera lettura del film non resta che una suggestione, un’ombra, un riflesso. Eppure è proprio di ombre e riflessi sbucati da una casa degli specchi che parla Noi, non a caso Gabe (Winston Duke) definisce “mirror girl” l’apparizione del doppio speculare avvenuta trent’anni prima di cui gli parla la terrorizzata Adelaide (Lupita Nyong'o). Se nel film di Lynch era la Lost Girl a orientare retrospettivamente la narrazione, qui è la Mirror Girl a menare le danze. E siccome siamo in tema di ribaltamenti di prospettiva, sapremo in seguito che la “bambina dello specchio” (questa la traduzione di “mirror girl” nella versione doppiata in italiano) è davvero ombra, riflesso e protagonista di tutta la vicenda. La storia è dunque presentata a tutti gli effetti dal punto di vista di Adelaide: l’immaginario di riferimento è il suo. Il film non solo si apre col suo sguardo di bambina di nove anni, ma si chiude con un altro sguardo infantile: quello del piccolo Jason (Evan Alex) che scruta la madre con aria interrogativa e complice prima di calarsi la maschera sul volto. Detto altrimenti, Noi è un film letteralmente delimitato da due sguardi infantili, quello della piccola Adelaide in apertura e quello del piccolo Jason in chiusura.
Inoltre, ennesima spia di un immaginario infantile al lavoro, l’intero film è disseminato di inquadrature dal basso. Se la sequenza iniziale nel parco dei divertimenti è fisicamente e platealmente agganciata allo sguardo in soggettiva (ancora una volta) della piccola Adelaide, le inquadrature dal basso fioccano ininterrottamente per tutto il film, basti menzionare il primo dialogo a tavola della famiglia Wilson, la passeggiata solitaria di Jason a Santa Cruz, il confronto domestico in salotto coi doppi vestiti di rosso e la sequenza in cui i Wilson guardano le notizie televisive sul diffondersi dell’invasione omicida. Insomma, è come se tutto il film fosse ad “altezza bambina”, come se questo sguardo infantile costituisse il segno visivo più caratterizzante, la cifra stilistica più strutturante. E persino la caratterizzazione dei personaggi possiede un inconfondibile sapore infantile. Non soltanto la famiglia Tyler, che pare uscita da un cartone animato sboccato e sbroccato (parentesi: ho adorato smisuratamente Tim Heidecker nei panni del cazzone Josh), ma soprattutto la figura di Gabe, un padre la cui età mentale non supera sicuramente i 12 anni, come gli fa puntualmente notare Adelaide quando lui propone di preparare qualche trappola “tipo quella roba di Mamma ho perso l’aereo”: “Gabe, si sono organizzati, hanno preso il sopravvento. Questo è il momento di andarcene, non di sparpagliare le Micro Machines sul pavimento”. Insomma, se Noi è un film sull’atto del guardare, non c’è dubbio che lo sguardo dispiegato per tutti i suoi 116’ sia connotato in chiave infantile.
Chi parla? Dal simulacro all’apparenza/apparizione: linguaggio e rivolta
Ora, constatata la qualità infantile della visione proposta da Noi, si potrebbe pensare a un parallelo rimpicciolimento del portato politico. Invece mi pare che avvenga esattamente il contrario: questa infantilizzazione dell’immaginario proposto dal film ha un duplice effetto. Da una parte restituisce innocenza alle immagini e dall’altra le carica di un’efficacia simbolica perduta, portandole dal piano del simulacro a quello dell’apparenza/apparizione. Perché in fondo il film di Peele non fa che raccontarci una cosa: la storia di immagini che diventano reali, gli effetti del vivere in una realtà che diventa indistinguibile dal suo doppio simulato. Noi racconta insomma la condizione umana nell’Era-del-Simulacro, ossia un’era in cui l’illusione non è più chiaramente distinguibile dal Reale. Eppure non c’è arrendevolezza né rassegnazione nel progetto di Peele: anziché rifugiarsi in una paranoia generica e generalizzata, Noi combatte la resa al simulacro rigenerando politicamente le immagini proprio in quanto apparenze/apparizioni. Se il simulacro consiste nell’illusione dell’immaginario (l’illusione che diventa indistinguibile dal reale), l’apparenza/apparizione suggerisce al contrario l’esistenza di un’altra dimensione (in questo caso quella sotterranea degli “incatenati”) potenzialmente rivoluzionaria, suscettibile di rappresentare, proprio in quanto apparenza/apparizione, una parte esclusa dal corpo sociale. Se quella del simulacro è una dimensione che nega il dominio del politico confondendo reale e immaginario, l’apparenza/apparizione definisce invece il campo della politica, ovvero il campo in cui “una parte non inclusa nell’Intero del Corpo Sociale (o inclusa /esclusa in un modo che essa non accetta) simboleggia la propria posizione come quella di uno Sbaglio, pretendendo, contro le altre parti, di rappresentare l’universalità” (Slavoj Žižek, Il soggetto scabroso. Trattato di ontologia politica, Milano, Cortina, 2003, p.245). In altri termini, Noi è un film politico non nel senso banale del termine (rappresentazione militante di antagonismi sociali), ma, molto più sottilmente, è politico nel senso dell’immaginario, poiché intende restituire alle immagini l’efficacia simbolica perduta.
Anche l’uso della parola, per finire, riveste un’importanza fondamentale in Noi: il possesso delle facoltà verbali costituisce addirittura il fattore discriminante tra “incatenati” e “liberi”. In definitiva il film di Peele, raddoppiando la figura di Adelaide/Red e intrecciando la sua vicenda linguistica, intende letteralmente dare voce a chi non ne ha per limitazioni sociali, a chi è escluso arbitrariamente e programmaticamente dall’uso della facoltà umana per eccellenza: il linguaggio. Senza linguaggio non si può organizzare una protesta degna di questo nome, senza linguaggio semplicemente non ci si può far sentire: la facoltà linguistica, in questo senso, diventa lo strumento fondamentale per accedere a una dimensione compiutamente politica e antagonista, per scatenare la rivolta. Non è fortuito che sia solo Adelaide (divenuta Red) a elaborare e mettere a punto il progetto di “slegatura” che chiama a raccolta gli “incatenati”. Possedere la facoltà del linguaggio coincide insomma con la conquista del diritto di parola, stadio evolutivo che sembra essere precluso in anticipo agli “incatenati”, costretti a esprimersi con suoni gutturali e stridori inarticolati. Del resto non è questo che raccomanda la psicologa ai genitori della piccola Adelaide diventata improvvisamente mutacica dopo la sua escursione solitaria nella casa degli specchi? “Incoraggiatela a disegnare, scrivere, ballare: tutto ciò che possa aiutarla a raccontarci la sua storia”. Ecco, Us è letteralmente quella storia. Se non fosse che Peele, nell’ultima inquadratura, riprende in mano le redini del film, mostrandoci gli effetti rivoluzionari di un rosseggiante e fiammeggiante Hands Across America creato dagli incatenati finalmente slegati e liberi. Stavolta non più segregati nel sottosuolo e costretti a scimmiottare le azioni di chi sta sopra, ma in alto e alla luce del sole, inquadrati da uno sguardo aereo e trionfante. Mentre, sulle note di Les Fleur, il coro di Minnie Riperton esulta: "a new time is born".