Cortometraggio, Drammatico, MUBI, Surreale

NIMIC

Titolo OriginaleNimic
NazioneGermania, U.S.A., U.K.
Anno Produzione2019
Durata12'
Basato su un'idea di David Kolbusz
Fotografia

TRAMA

Un violoncellista, dopo aver terminato le prove per un concerto, in metropolitana chiede a una donna: «Che ora è?».

RECENSIONI

Tornato a scrivere col fidato Efthymis Filippou, il talentuoso regista greco, Yorgos Lanthimos, non dimentica Kubrick, che aveva usato nel Barry Lyndon la Suite n. 4 in Re minore di Händel, e costruisce il cortometraggio Nimic intorno al principio della sarabanda musicale ed emotiva. Tuttavia evita l’inciampo di volersi troppo accostare al Maestro, limite de La favorita, lavoro che resta esemplare per sfoggio di capacità compositiva, ma anche per esteriorità di analisi, e anima una materia che rimanda a riflessioni antiche.
Cosa era infatti, se non la contaminazione borghese dell’Agamennone euripideo, il personaggio di Steven Murphy (Colin Farrell) ne Il sacrificio del cervo sacro? Maldestro, impreciso, ambizioso cardiologo (con la hybris di colui che ha potere di vita e di morte, pari a un dio), proprio come il comandante acheo nella versione del più moderno dei grandi tragici, su Murphy si abbatteva la nemesis di una sinistra maledizione. Ma se in Euripide sarebbe stato il marchingegno sfottuto da Aristofane, la carrucola del deus ex machina, a risolvere l’impiccio e a salvare, trasmutandola e traslandola, Ifigenia, per il modernissimo Lanthimos è l’uomo stesso, colui che ha sfidato gli dei, a doversi dibattere tra fato cieco, imperturbabile e libero arbitrio. E noi con lui, pedine di un gioco analogo: cosa ha mosso davvero, a un livello più profondo, intimo, la mano ferale dell’Agamennone impotente? Quel sacrificio si fermava lì, a uno scorcio opaco, sospeso in una dimensione di completa alterità, su una giovane donna-sacerdotessa e su un quadretto familiare tanto inquietante quanto simmetrico. Fatalmente inquietante e simmetrico, verrebbe da dire.
Nimic sembra voler proseguire l’indagine, anticipandone verbalmente l’esito, come in un giallo in cui l’assassino è noto. Il regista disgrega sia a livello cromatico – freddo e caldo, blu e arancio – che a livello geometrico – rotondità rassicuranti accanto a linee impervie – l’identità del protagonista, un Matt Dillon ispirato e, ça va sans dire, senza nome. Lo compenetra l’ombra di una presenza che è senso di colpa per una specie di delitto, o di peccato originale,  di cui non v’è menzione, ma che, nel collegamento ideale coi precedenti lavori di Lanthimos, da Kynodontas a The Lobster fino a Il sacrificio del cervo sacro, è abbastanza lampante ai nostri occhi (la donna è giovane, una cerva cresciuta, insomma). E a sua volta l’uomo, l’everyman confuso e abulico, si “approprierà” dell’esistenza di qualcun altro, secondo un loop scandito dalle lancette dell’orologio, da un’indicazione impossibile del tempo, per meglio dire, che non può non far pensare alla meravigliosa non-conclusione di Twin Peaks – The Return.
Ma la riflessione di Lanthimos è tanto esistenziale – un tempo della vita congelato, interrotto, parcellizzato – quanto politica: è infatti la concezione stessa della famiglia come istituzione a essere di nuovo messa in discussione dall’autore di Pangrati. È un ballo eccitante – e osceno, disordinato –, se si tiene conto dell’etimologia pre-colombiana della parola sarabanda (qui è presente quella di Benjamin Britten, dalla sua Simple Symphony) ciò che si dispiega di fronte allo spettatore. In quello che sembra un delirio contagioso – solo i bambini risultano indenni, o almeno inconsapevoli, poiché non schiacciati dalla sovrastruttura – il tempo si comprime fino ad apparire come narrativamente insignificante (si veda la reiterazione dell’immagine della sveglia); i gesti divengono ripetitivi, quasi automatici, bulimici, ma privi di passione: una danza macabra alfine, in uno stridore d’archi. L’individuo si sgretola entro il suo ruolo sociale, sempre di più, sempre più in fretta, nel tripudio degli applausi. Della sua identità, ammesso che se ne possa rintracciare ancora una, non rimane niente.
Nimic, appunto.