TRAMA
Killer a pagamento per conto della criminalità organizzata, Frank Kitchen vede la sua vita stravolta quando la sorella di un suo bersaglio, una geniale chirurga, mette in atto una vendetta impensabile e trasversale.
RECENSIONI
Maverick del cinema americano anni Settanta e Ottanta, maestro di stile, del gesto grafico asciugato da sovrastrutture e rimandi intellettuali, Walter Hill è il regista ancora vivo che forse più di tutti i suoi coetanei ci impone il confronto con un cinema resistente, antico, instancabile al mutare di industrie e icone plastificate. Le sue forme ancora oggi sono fantasmi che infestano un immaginario metropolitano fatto di neon e velocità, antieroi silenziosi e strade luccicanti. Il genere che vive come magma privo di regole predefinite, che scrive anzi da sé le sue regole e le tiene sul banco per decenni, tra l’anarchia virile di un Milius e la ricerca estetica di Mann. Ma rispetto all’autore di Blackhat, Hill continua a schivare la contemporaneità e le sue cifre esistenziali, preferendo alla riflessione teorica sul virtuale il ricorso ad un digitale materico che si fa artificio fallico, sesso aggiunto e rivisitato sul corpo androgino di Michelle Rodriguez.
Dopo il menage a trois di Blade Runner 2049, dove carne e sintetico si compenetrano nel tentativo di aderire disperatamente al reale, Nemesi innesta sul suo corpo filmico un cortocircuito di protesizzazione computerizzata e chirurgia gender, carni femminee rivestite di gadget machisti che attraverso il bisturi della narrazione diegetica tornano alle loro forme native, portandosi però dietro la confusione dei confini tra gender e identità. Gender is identity, dice il chirurgo lecteriano impersonato dall’algida Sigourney Weaver, ma il percorso intrapreso dal killer Frank Kitchen / Michelle Rodriguez lascia aperte le porte di una redenzione transessuale capace forse di attraversare categorie definite e pensieri facili. Espulsa la sete di vendetta, cosa resta di Frank Kitchen? Dell’ennesimo antieroe ai confini della società che anima un cinema in prima istanza trans-mediale, che gioca con la stilizzazione fumettistica come marca d’autore mentre costruisce attorno ad un soggetto decisamente sopra le righe un thriller urbano asciutto e preciso come un proiettile. Hill lascia aperta ogni strada, mentre firma un titolo – il suo 23esimo, in una filmografia clamorosa – che a prima vista potrà sembrare forzato e schizofrenico nella sua identità scissa. Revival nostalgico di un cinema di azione hard boiled ormai scomparsa, oppure riflessione non banale e scomoda sul tema dell’identità sessuale? Nemesi non scioglie neanche questa di domanda, si rifiuta di prendere posizione e porta avanti una narrazione ibrida in cui tanto il gender quanto il genere (cinematografico) diventano territori da rimodellare a volontà, senza spinte iconoclaste ma con la libertà trasversale di essere e mutare rimanendo sé stessi. Cinema e corpo che si fanno tutt’uno, body-noir ad alto tasso di violenza e atmosfera, che inciampa sì in tante ingenuità, ma conserva dietro le sue goffaggini di sceneggiatura una fede assoluta e naif nell’immagine, un darsi alla trasformazione dello sguardo come fosse lanciarsi senza paracadute oltre i territori pavidi di una Hollywood sempre più scarnificata, asettica, pigramente agiata in modalità di sicurezza. Per questo un’operazione così delicata, quasi autolesionista, come Nemesi ci sembra perfettamente coerente con l’attitudine e la storia cinematografica di Hill, gigante del passato capace ancora oggi di alterare forme e tradizioni del genere, dei generi, senza confini.
Con il precedente Jimmy Bobo e questa produzione a basso costo di Said Ben Said, specializzato nel riportare al cinema grandi autori disoccupati, Walter Hill ribadisce una volta per tutte che il suo cinema è impiantato nel western e nel fumetto (collabora spesso con Matz, ultimamente). Entrambi i film coesistono con un graphic novel, in questo caso pubblicato in Francia su ‘Corps et âme’ nello stesso anno (i crediti dichiarano una sceneggiatura originale di Hill e Denis Hamill perché la prima bozza risale al 1978). I fermi immagine diventano strisce, l’Io narrante con femme fatale (l’infermiera) fa pensare al noir, il mad doctor si porta dietro il tema dell’arroganza dell’istruito fottuta dalla scaltrezza dell’Eroe della Strada, di Jimmy Bobo tornano il killer a pagamento con conti da saldare e lo sguardo al cinema passato di Hill (musiche di Giorgio Moroder comprese), secondo cui non contano le psicologie dei personaggi ma il modo in cui s’elabora ciò che fanno. L’effetto Nei Panni di una Bionda è il meno interessante: Michelle Rodriguez truccata da uomo è credibile ma, per ciò che conta davvero nel cinema di Hill, ingaggiare un attore maschio non avrebbe cambiato nulla. Come nelle migliori pellicole di serie B che ama, infatti, oltre e sotto le traiettorie basiche di una trama di genere dove ci si bea della creatività della messinscena (non strabiliante ma efficace, fatta la tara di uno spossante andare avanti e indietro nel tempo), conta il discorso sull’identità (Johnny il Bello) anche sessuale, sfruttando un villain (Sigourney Weaver) che declama come fosse in un’opera Shakespeare e che, di Poe, ama il principio secondo cui l’arte non deve nulla a morale e politica. Vendetta e spari in superficie, mentre sotto si dichiara che l’essere umano violento, fallo o non fallo, non cambia.