Azione, Recensione

MISSION: IMPOSSIBLE III

TRAMA

Ethan Hunt sta per dire addio al celibato, quando gli comunicano che una sua ex allieva della “Mission Impossible Academy” (è un nome di fantasia) è stata rapita. La missione, se deciderà di accettarla, sarebbe quella di andare a liberare la giovane agente…

RECENSIONI

Un signor prodotto, questo confeziona l’Abrams di Alias e Lost . Fedele alle regole del gioco, il Nostro sbaglia poco o nulla: macchina a mano quando serve, otturatori veloci al punto giusto, qualche mini-longtake quasi baziniano, montaggio a orologeria e una scansione dei tempi precotta che, purtuttavia, non lascia scampo e costringe a sorbirsi M:I:III senza sbadigliare (quasi) mai. Si inizia con un efficace flashforward che innesca il giochino narrativo film-spettatore in cui sarà il come e non il dove a condurre le danze. E’ cosa buona e giusta, giacché questo riuscito incipit sineddocheticamente chiarisce e candidamente dichiara che ormai è lì che si gioca la partita del Genere (si veda la battuta di Rhames: “ce l’ha fatta!... ma tanto si sapeva già”), inutile tergiversare troppo. Segue una parentesi umana, dove si delinea la parte sentimentale, debole ma fisiologicamente indispensabile del film, che cede però il passo a una sequenza perfetta (liberazione dell’ostaggio – duello in elicottero – microepilogo tragico). Il vero tonfo il film lo rischia subito dopo, quando il troppo zucchero rischia di stroppiare (il matrimonio in ospedale) e Abrams sembra perdere momentaneamente la capacità d’intendere e di girare, con una sezione vaticana sciatta e del tutto approssimativa, appena risollevata da qualche riuscito suspense-gag (l’imitazione vocale differita). Fortuna che il film evita lo schianto in extremis e riprende quota senza troppi affanni, concedendosi anche una piccola chicca registica: quella che teoricamente dovrebbe essere una sequenza chiave del film, la vera impossible mission di Ethan Hunt (rubare da solo, in una manciata di minuti, la sorvegliatissima “zampa di lepre”), è confinata in un ipotetico e distante fuori campo, con la cinepresa fissa a guardare altrove (i colleghi di Ethan in pena per lui); la trovata è simpatica e gioca allegramente con le aspettative dello spettatore, istigato ad aspettarsi il solito fuoco e le solite fiamme che stavolta non arrivano. Fanno il resto i consueti doppi giochi della serie, tutto sommato ben serviti da una sceneggiatura diligente, e un pre-visto happy end che ci sta tutto e ci mancherebbe altro. La multinazionale Cruise ha l’espressività di una multinazionale mentre gli altri attori tirano a campare, tranne forse Seymour Hoffman che bene incarna un cattivaccio viscido banalmente maligno. Dopo la mezza boiata di Woo, indegno paralipòmena del magistrale primo capitolo depalmiano (in tutti i sensi, checché ne dicano i depalmiani o De Palma stesso), un 3 così è comunque una boccata d’aria condizionata.

In principio fu Brian De Palma a rendere cinematografico il celebre telefilm degli anni '60, con un risultato dignitoso ma noiosetto. Poi è stata la volta di John Woo e tra colombe, iperboli ginniche e scene d'azione incuranti della forza di gravità, il divertimento ha avuto il suo picco. A dieci anni di distanza dal primo film, delle gesta dell'agente speciale Ethan Hunt restano nella memoria il divismo di Tom Cruise, vera star del millennio, il tema musicale immortale di Lalo Schifrin e il gigantesco marketing, in grado di spingere il pianeta all'interno delle sale. Difficile avere qualche cosa di nuovo da aggiungere su un personaggio in fondo sovrapponibile a mille altri (doppigiochi, gadget tecnologici, location in giro per il mondo, inseguimenti e tantissime esplosioni), ma gli incassi globali, strepitosi e in crescita, devono avere inciso non poco sulla decisione di Tom Cruise, ancora una volta produttore, di buttarsi a capofitto in una terza puntata. Divergenze "creative" hanno spinto quasi subito il regista prescelto, Joe Carnahan, ad abbandonare il progetto, che è stato affidato al Re Mida della televisione J.J.Abrams, autore di "Alias" e "Lost", due delle serie americane di maggior successo degli ultimi anni. L'arduo compito è svolto con indubbia professionalità, ma l'adrenalinico tour previsto dalla sceneggiatura ha meno mordente del previsto. Se da un lato giova al protagonista circondarsi di una squadra e ridurre i primi piani a lui dedicati, è anche vero che le tante situazioni avventurose nascono e si risolvono seguendo sempre le stesse dinamiche: missione impossibile, lotta contro il tempo, imprevisto, presunto fallimento, colpo di coda vincente (tranne in un caso, funzionale alla narrazione). Il che, ovviamente, lascia ben poco spazio alla tensione. La sceneggiatura suddivide la trama in quattro episodi (puntate?) con il collante di una mielosa storia d'amore con la bella e pura di turno che l'eroe deve difendere contro il cattivo di turno. Berlino (ma potrebbe essere una fabbrica dismessa collocata ovunque) ospita la prima sequenza d'azione, freddina, abbastanza confusa e poco coinvolgente; a Roma (si fa per dire, visto che gli interni sono quelli della Reggia di Caserta) l'esagerazione diventa spasso; gli Stati Uniti sono perlopiù un lungo ponte assaltato dai cattivi con botti e deflagrazioni assestati ad effetto e Shanghai accoglie la spettacolare conclusione a passeggio tra tetti pittoreschi e grattacieli. La curiosità è nel sempre più stretto confine tra una televisione che assomiglia al cinema e un cinema che chiede aiuto alla televisione, ma lo stile nervoso adottato da Abrams si fa alla lunga un po' ripetitivo e la caratterizzazione dei personaggi non brilla certo per approfondimento e sfumature. La tanto sbandierata umanità del protagonista, quasi assente nelle puntate precedenti, esce infatti allo scoperto solo per difendere privacy e affetti, ma lo scavo psicologico si ferma lì. I comprimari sono invece coriacei come cyborg ed emotivamente inattaccabili, di conseguenza anche lontani dal suscitare emozioni (se non si preoccupano loro, perché dovremmo farlo noi, non basta certo una preghierina orientale...). A smussare improbabilità ed eccessi avrebbe giovato il tonico dell'ironia. Invece Abrams, e Cruise, scelgono qualche battuta comica dagli esiti più ammoscianti che leggeri. Il cast, pur nella limitatezza dei registri espressivi richiesti, funziona a dovere. Delude invece un po' la colonna sonora, con il celebre tema di Schifrin ad introdurre (brutti e frettolosi i titoli di testa) e concludere il film, con qualche incursione rimaneggiata anche nel durante, ma con troppe digressioni poco incisive ad opera di Michael Giacchino. Difetti e approssimazioni, pur limitandone la portata, non incidono comunque sull'intrattenimento. Tanto che le porte per un quarto capitolo sono scaltramente aperte dalla sceneggiatura. Ora non resta che attendere la complicità del botteghino.