TRAMA
Corea del Sud, 1986. Il ritrovamento del cadavere di una ragazza barbaramente violentata in una piccola cittadina di campagna scatena le indagini dell’inadeguata polizia locale, intenta più a cercare un capro espiatorio che a trovare il vero colpevole. Poco tempo dopo viene scoperta un’altra vittima e da Seoul arriva un ispettore per collaborare alle ricerche e fare luce sul mistero.
RECENSIONI
Anni ’80, battute finali del regime in Corea del Sud, commissariato di provincia. Il detective Park scruta i sospetti che gli capitano a tiro, convinto di capirne la colpevolezza o l’innocenza con una sola occhiata. Il suo sguardo, vagamente ottuso, spesso imbambolato, scimmiottato da un bambino nella sequenza d’apertura, crede di poter discernere male e bene, di riuscire a tracciare e visualizzare una linea morale che è chiara, manifesta, trasparente. Ma lui per primo, marionetta di un sistema brutale e repressivo, non esita a ricorrere a falsificazioni di prove o a confessioni estorte in modo subdolo e violento pur di chiudere velocemente i casi. La sfida lanciatagli dal suo capo a riconoscere tra due uomini finiti alla stazione di polizia locale, entrambi con segni di contusioni al volto, chi sia lo stupratore e chi il fratello della vittima finisce senza alcun esito, con l’inquadratura interrotta bruscamente. Quella del detective Park sarà un'educazione alla frustrazione, allo scacco, all’impossibilità di decifrare il mondo circostante, alla necessità - forse - di accedere a una nuova dolorosa consapevolezza.
Opera seconda di impressionante maturità espressiva, poderoso scatto in avanti rispetto agli umori dark della pur notevole black comedy d’esordio (Barking dogs never bite), Memorie di un assassino costituisce già una summa di quella che sarà una delle filmografie più folgoranti del cinema del nuovo millennio, ad opera di uno degli ultimi talenti della Hallyu, o Korean Wave, il fenomeno di crescente popolarità mondiale dei prodotti culturali sudcoreani cominciato a partire dalla fine degli anni Novanta. Di titolo in titolo, quella di Bong si rivelerà infatti un’indagine implacabile e implacabilmente compatta (anche nei suoi esiti più discutibili: vedi Okja) sulle mostruosità morali che affliggono sì il mondo sudcoreano, in una scala che va dal singolo individuo alla rete familiare al più esteso tessuto sociale alle colpe istituzionali, ma che, tra parassitismi assortiti e scontri di classe senza soluzione, saprà farsi globale fino al trionfo internazionale e alla quadratura del cerchio del pluripremiato Parasite (Corea del Sud come sineddoche del mondo post-capitalista e neoliberista). Per analizzare questo universo malsano, Bong ricorre alla griglia del genere (thriller, noir, mélo, horror, fantasy) come terreno sperimentale, genere che al tempo stesso decostruisce e rispetta, e a un inestricabile mélange di toni farseschi e tragici che trovano un’unità in quel grottesco bonghiano che è ormai marca autoriale riconoscibilissima, lente attraverso la quale esaminare e cercare di dare una forma all’assurdo esistenziale, alla strenua ricerca - mi permetto un’autocitazione - di “quel che che resta dell’umano”, di un barlume di salvezza.
Ricordi di un omicidio – come recita il titolo originale, mentre quello italiano opta per una incongrua soggettività –, di più omicidi, di una democrazia violentata e sospesa, di una stagione della vita marchiata da atti disumani, inspiegabili, rimasti sottopelle, di un passato che non smette di infestare il presente. La disperata detection messa in scena da Bong nel film del 2003, ricostruzione amarissima di un eclatante caso di cronaca nera che aggiunse ulteriore inquietudine all’ultimo periodo della dittatura militare sudcoreana, distogliendo l’attenzione dai crimini seriali commessi ai piani alti delle istituzioni (e risoltosi con un colpo di scena tardivo solo nel 2019), si snoda tra notti di pioggia incessante, vestiti rossi indossati come esche, biancheria intima trasformata in strumento di morte, canzoni tristi trasmesse alla radio, fil rouge di una malinconia morbosa e omicida, di un malessere inestirpabile e impalpabile che rende tossico anche l’etere, in un rispecchiamento aberrante che sdoppia in violenza privata la violenza di Stato. Ritratto sghembo di una nazione malata, paesaggio desolato con figure altrettanto desolate: la macchina da presa di Bong perlustra una provincia rurale lontana da Seoul, dove gli echi delle rivolte studentesche arrivano attutiti e alterati, fatta di catapecchie e locande fumose, coltivazioni intensive e stradine fangose, minacciata dall’ombra lunga della modernità di una cava sproporzionata, abitata da un’umanità derelitta e culturalmente fragile (proletari spiantati, tristi erotomani, ritardati sfigurati, donne relegate dal maschilismo imperante a ruoli ancillari quando non a puri corpi da violare). I due agenti che avranno il compito ingrato di sbrogliare la terribile matassa, il rozzo e sbrigativo poliziotto di campagna Park e il più professionale e scientifico agente di città Seo, si ritroveranno letteralmente in un tunnel senza sbocchi, vittime di un’impotenza sistemica che li istiga all’esercizio di quella violenza che dovrebbero combattere, ingranaggi di un meccanismo perverso che tutto cerca tranne che la verità.
La densa palette cromatica aggiunge intensità alla già inesorabile scansione narrativa: dominano tinte uggiose e plumbee, colori terrosi, sfumature verdastre incastonate tra due sequenze assolate in cui la luce non illumina, acceca. Vedere – e capire – è terribilmente faticoso. La messa in scena di Bong, tra long takes prodigiosi che setacciano gli spazi aperti e un sapiente uso della profondità di campo che gli permette di coreografare inquadrature in interni affollate di personaggi senza perdere di vista un dettaglio, non si risolve mai nel tour de force stilistico, non smarrisce mai quello che è il cuore nero della visione, l’inafferrabilità della verità che, come ha scritto Pier Maria Bocchi sulle pagine di FilmTv, rimane “una immagine totemica scivolosa, abbagliante e a conti fatti inesistente”. Ed è questo che spiega allora la portata emotiva dell’inquadratura finale, uno degli sguardi in camera più lancinanti del cinema degli anni Duemila. Smarrito e sconcertato, diciassette anni dopo gli eventi, Park, non più in polizia, ormai imborghesito (il mai troppo lodato Song Kang-ho, magnifico interprete dell’uomo medio coreano), guarda al passato, si volta e ci fissa, come volesse scovare un’ultima traccia anche tra noi spettatori, come se per l’ennesima volta volesse mettere alla prova il suo millantato talento, e al tempo stesso chiedesse aiuto, amaramente consapevole dell’inanità di ogni suo tentativo. Perché il male – e forse lo capisce solo in quel momento – ha una faccia ordinaria, come tante, come la nostra, come la sua.