TRAMA
I vertici della società silurano Eric Dale dell’ufficio “gestione rischi”, che stava lavorando ad un’importante analisi. Quest’ultima passa al suo giovane subalterno che, da quei dati, scopre che la società sta per saltare in aria: viene radunato il consiglio direttivo in emergenza.
RECENSIONI
I licenziamenti come dei raid: la squadra entra, ti picchietta sulla spalla, ti chiede di fare armi e bagagli e di lasciare l’ufficio. Non c’è neanche il tempo di realizzare cosa stia accadendo che sei disconnesso: non hai più un account di posta, il tuo portatile aziendale ha smesso di funzionare. La prima scena di Margin Call filma un incubo, rende efficacemente la brutalità dell’esperienza-spettro di un’epoca. La crisi (il momento è particolare) è anche questo: colletti bianchi - che guadagnano palate di quattrini, messi alla porta quando solo due minuti prima erano al pc a svolgere il loro lavoro - si trovano d’improvviso tra le mani il depliant del programma predisposto per affrontare il trauma del licenziamento (Look Ahead: guarda avanti). E non serve prevenire: quando deve saltare una testa non contano torti e ragioni, poiché le logiche che vengono seguite sono puramente aziendali, dunque imprevedibili, imperscrutabili, amorali. E’ un incipit che può ingannare, facendo pensare all’opera come a un film dossier, uno spaccato sui tempi, rivolto a una riflessione sulla Grande Crisi (sul genere del recente The company of men di John Wells); il procedere della pellicola, però, la connota in tutt’altro modo: la recessione e il capitalismo degli squali diventano sfondo (significativo, certo) sul quale si staglia una tragedia che incrocia i destini degli individui coinvolti con quelli della società umana esterna (esterna in ogni senso: la rappresentazione del microcosmo aziendale ha del claustrofobico).
Scoperto, quasi per caso, che l’azienda è sull’orlo del tracollo, per lo staff dirigenziale si apre una vera e propria notte di passione durante la quale bisognerà prendere decisioni fondamentali: in gioco non c’è solo il destino dell’impresa, ma dello stesso sistema capitalistico. Il film propone, infatti, una situazione limite, esplicitamente rappresentativa ed evidente simbolo della congiuntura, quella attuale, in cui salvare il sistema - anche se solo temporaneamente, anche barando spudoratamente, anche inquinando il mercato - significherà determinare la rovina di migliaia di investitori che si troveranno tra le mani carta straccia pagata a peso d’oro. Le implicazioni morali sono evidenti, ma, come il film sottolinea a più riprese, non coinvolgono solo i titani della finanza, ma anche tutti coloro che, pur da pesci piccoli, sulle manovre dei papaveri fanno ipocrita affidamento, non guardando (perché non le si vuol guardare) le fondamenta di argilla sul quale il sistema poggia (un mondo equo non permetterebbe alle “persone normali” di fare la vita che fanno, per cui esse tendenzialmente rimuovono l’origine dei loro vantaggi, salvo disperarsi quando poi li perdono, dice in sostanza il cinico realismo di Will Emerson/ Paul Bettany).
Il groviglio complesso viene dipanato in un susseguirsi di quadri teatrali che si allestiscono negli spazi del grattacielo - scenario: tra corridoi, abitacoli, sale di riunione si alternano scene di gruppo a duetti esplicativi, confronti duri e spietati che mettono in chiaro le rispettive posizioni e, di riflesso, i temi in ballo. L’eccessivo tecnicismo della questione finanziaria/mcguffin è risolto con un espediente drammaturgico palese e classico nello stesso tempo: il grande capo, interpretato da Jeremy Irons, chiede (ad evidente favore degli spettatori) che la questione gli venga spiegata come si potrebbe farlo ad un bambino, ma, con scaltra azione diversiva, la cosa viene ricondotta nell’alveo del personaggio con un perentorio Non è il cervello che mi ha portato fin qui, posso assicurarglielo. In generale il modo in cui il regista riesce a muoversi tra l’insopprimibile discorso generale e le ragioni drammatiche legate al comportamento personale dei caratteri è forse il merito maggiore di un film la cui cesellata meccanicità a volte ostacola la progressione in chiave thriller: l’escalation che porta il nodo a salire gradualmente la scala gerarchica, fino all’arrivo del suddetto capo supremo che scende dal suo elicottero, planando come feroce e risolutivo deus ex machina sui tormentati rovelli dei suoi sottoposti.
Margin Call ostentando la freddezza di un impianto visivo livido e geometrico è pellicola che, peraltro, sa anche prendersi i suoi tempi, che bada sempre molto alla temperatura emotiva delle situazioni, in cui le figure si muovono sulla base di stati d’animo basici: determinazione, tensione, paura (non è un caso che la tristezza e le lacrime siano concentrate in una situazione solo apparentemente fuori contesto, quella della morte del cane di Sam/ Kevin Spacey). Nominato all’Oscar per la migliore sceneggiatura originale, Margin Call è un asciutto apologo contemporaneo che impressiona più per la costruzione e la struttura che per ciò che narra, un film che, con cocciuta determinazione, non abdica mai alla sua impostazione e che molto deve al perfetto cast che non sbaglia un tono.
Se ci si dovesse basare sui dati presentati dal film, ecco cosa salta fuori: una non ben identificata società, che non si sa bene cosa venda/compri, rischia grosso (problemi di capitalizzazione) e con essa l’intero mercato capitalistico. Tutti i personaggi vivono la situazione come la fine del mondo, qualcuno preoccupato per l’esterno (che non vedremo mai), qualcuno solo per se stesso. Nel frattempo, scambi di battute ad hoc individuano i tipi “morali”, che scuotono la testa per le cifre con troppi zeri guadagnate dai vertici, e i lupi, pronti a passare la merce che scotta, indorata di miele, al primo sprovveduto. Se, invece, si vanno a leggere dichiarazioni di pressbook e autori, scopriamo che: si tratta di una banca di investimenti e siamo all’inizio della devastante crisi economica che è partita dagli Stati Uniti. Il caso Lehman Brothers, cioè. Per dire che, a confronto, il film televisivo Too Big to Fail – Il Crollo dei Giganti (stesso argomento e dello stesso anno), a confronto è un capolavoro: l’esordiente J.C. Chandor, infatti, parla dell’argomento per esperienza diretta (il padre era nel settore) e mira ad una versione fiction (o “teatrale”, dato che si chiude, con ottimi interpreti, fra quattro mura, ma non emula certo né Wall Street né Americani) e traslata con lirismo dei fatti, ma dimentica completamente di contestualizzare e, a forza di sottrazioni, mette in campo una fumosa drammatizzazione di dinamiche societarie interne, rendendo impossibile allo spettatore, estraneo all’argomento, di risalire al fulcro tragico della vicenda. Corre una grande tensione e lo spettatore è indotto, inutilmente, a sperare che il “cosa” stia succedendo e, soprattutto, il “perché”, verrà prima o poi rivelato: con una bella battuta, ad un certo punto, il personaggio di Jeremy Irons chiede a quello di Zachary Quinto di spiegargli cosa stia accadendo come farebbe ad un golden retriever, perché non è certo arrivato a occupare quella posizione per il suo cervello (!). Chandor, anziché cogliere l’occasione per rendersi intellegibile, sciorina motivazioni tecnico-finanziarie specialistiche, astruse per i non addetti ai lavori. Per quanto riguarda, invece, la messinscena della “tragedia” umana: Chandor ama definire i personaggi attraverso varie battute, ma anche qui finisce per fare confusione, ad esempio con l’emblematico, irrisolto personaggio di Kevin Spacey, che si batte contro gli squali fino all’ultimo, poi, senza che fornisca spiegazione alcuna, li asseconda (parimenti ambiguo il suo dolore per il cane morto: segno di insensibilità o di troppa sensibilità?).