Drammatico, Recensione

LOLITA (1962)

Titolo OriginaleLolita
NazioneU.S.A.
Anno Produzione1962
Durata153'

TRAMA

Un uomo penetra in una villa e ne uccide il propietario. Segue flashback: l’assassino e’ un professore inglese che sbarca nel new england, si innamora della giovanissima figlia della sua affittacamere e inizia una discesa verso gli inferi, inseguito da un misterioso demone dalle molte facce, nientemeno che la vittima dell’omicidio iniziale.

RECENSIONI

"Surreale, divertente, terrificante, malinconico", questo e' Lolita secondo un maestro del cinema contemporaneo che l'ha eletto a proprio film preferito (e, se a qualcuno interessa, lo e' anche per il sottoscritto).Geniale e sulfureo, il film sfuggi' a qualunque catalogazione e richiese la creazione di un nuovo "genere", la nuova definizione creata ad hoc di "black comedy". In un impianto narrativo drammatico classico, fondamentalmente realista, irrompono infatti caratteri deformanti della commedia e del comico, fregolismi di Sellers, gag da cinema muto, calembour dotti (la rappresentazione tetatrale scolastica, nella quale un vecchio caprone seduce una ninfetta...). Impreziosito da un pirotecnico Peter Sellers, a cui fu concesso di improvvisare sul set, e da un James Mason tragico e ridicolo, e' un film cosi' complesso e "denso" da essere quasi impossibile da analizzare. In sintesi, Lolita secondo Kubrick, e' la storia della disgregazione della personalita' che deriva dal morboso piacere di guardare, di spiare: l'innesco della vicenda viene da Lolita che si abbassa gli occhiali e da Humbert che la spia di sottecchi.Lo *spaesamento*, lo spiazzamento e' il primo degli aspetti che colpiscono, sin dall'incipit, grazie a due spazi quasi astratti: un parco affogato nella nebbiolina (che guarda, caso, in lingua inglese si dice "Haze"), e la casa di Claire Qulity, vero set/museo avulso dalla vita reale. Lo spiazzamento continuo viene poi definito dalla fuga in auto (ebbene si, Lolita e' anche road movie!) e la lunga fila di luoghi "tipici" visitati da Humbert e Lolita: cinema, campeggio, motel, scuola, ospedale in un vortice sempre piu' frenetico e ossessivo. La *ossessione* e' evidentemente un secondo filo che attraversa l'opera, l'ossessione fondamentalmente sessuale, trasfigurata per ragioni ovvie (era il 1962, il sesso che presumiamo esserci e' sempre fuori campo) in quella per il cibo. Non si contano nel film gli utilizzi di metafore cibo/sesso ("avvisaglie" si erano viste in Spartacus, nella celebre scena della ostriche): Lolita imbocca Humbert, Charlotte riprende e tiene a stecchetto una Lolita sempre affamata che invece Humbert vorrebbe viziare nutrendola di cio' che lei desidera... L'ossessione porta a forme patologiche: tra queste , le piu'riconoscibili, paranoia e schizofrenia. Lo *sdoppiamento* paranoico dilaga infatti per il film fin dalle prime battute: la delirante partita a tennis da tavolo (romanping-romanpong!) sostituisce gli adorati scacchi (che ritroveremo alla festa da ballo della scuola, con Mason e Sellers nelle rispettive vesti di re bianco e re nero) e da' il via, pur essendo l'epilogo, al gioco di rimpiattino durante il quale, genialmente, il motiplicarsi delle personalita' di Quilty depriva Humbert della sua, trasformando l'intellettuale affettato (quasi un dandy), osessionato dalla pulizia e quasi fobico del contatto fisico, in un poveraccio che si rotola, sporco e malato, sul pavimento di un ospedale.
Spaesamento, ossessione e sdoppiamento: ebbene si, Lolita e' il film cult di David Lynch.

Kubrick chiamò lo stesso Vladimir Nabokov ad adattare per il cinema il suo romanzo-scandalo ma finì per seguire poco la sua sceneggiatura (nonostante i titoli di testa riportino solo il nome dello scrittore), tradendo la pagina scritta nel momento in cui aumentava l’età della Lolita, riduceva le situazioni scabrose (soprattutto: dipingere Humbert come un depravato) e si concentrava sui crucci interiori di un uomo vittima della propria passione non corrisposta. Voleva evitare i problemi censori e lo fece con arguzia (anche “comica”), anche se dovette comunque sottostare a vari tagli (in seguito, ammise che non avrebbe realizzato l’opera se avesse saputo prima delle limitazioni cui fu sottoposto). Nabokov dichiarò, senza rancore, che “Lui vedeva il mio romanzo in un modo, io in un altro: tutto qui”. La regia è comunque magistrale nel modo in cui riesce, da un lato, sul filo del realistico, a comporre una satira feroce sull’agire umano (maschile) che, tanto più viene ridicolizzato, tanto più appare “vero”; dall’altro nel modo in cui rappresenta, con piglio complesso e intenso e mettendoli a nudo, i moti umani più meschini, con la Ragione del tutto sconfitta dalle pulsioni animali (fu scandalo sul bikini della quattordicenne Sue Lyon con lecca-lecca, hula-hoop e occhiali a forma di cuore). La “storia d’amore”, infatti, evolve lungo matrici morbose e sorprendenti, arrivando a estremi anche degradanti. Si (sor)ride e si freme nella tragicommedia, in una pellicola per l’epoca senz’altro rivoluzionaria nel coraggio delle sue tesi portate avanti con un grottesco poetico, giocato su piani sequenza (insolitamente conclusi con lunghe dissolvenze in nero) e su di un bianco e nero morbido. Kubrick si autocita in Spartacus quando fa dire al solito, impagabile Peter Sellers trasformista (che nel successivo Lassù qualcuno mi attende fa leggere Lolita a un chierichetto): “Sono Spartaco. Siete forse venuto a liberare gli schiavi?”. Unica pecca, ammessa dallo stesso autore: la prosa di Nabokov non si trasforma in un suo corrispettivo cinematografico (come avverrà, ad esempio, per Arancia Meccanica) ma in un gioco narrativo di sottrazione e trasformazione elusiva. Girato in Inghilterra: gli esterni statunitensi sono stati realizzati con dei trasparenti.