TRAMA
Il Dr. William Harford conduce una vita tranquilla, ma in seguito alle sconcertanti rivelazioni della moglie, circa un tradimento, peraltro solo immaginato, perderà ogni certezza, e si troverà immerso in situazioni che sembrano opera del più perfido dei destini.
RECENSIONI
La porta alla vita individuale passa per il riassorbimento delle sovrastrutture sociali, è l'angusto, spossante lume dato dalla visione onirica, ancora meglio incubatica: gli occhi chiusi nel sogno sono spalancati sui meccanismi del conflitto, quello eterno ed inevitabile tra natura e cultura (physis e nomos nella filosofia, quella primordia, greca, legge naturale e legge umana, giuridica) e quello, sperimentabile quotidianamente, tra individuo e imposizione collettiva delle convenzioni; lo scavallamento di queste due dimensioni in prospettiva di progetto esistenziale ottimistico, ecco quello che mette in scena Stanley Kubrick nel suo - in senso assoluto - ultimo film.
Per ammissione di Kubrick medesimo il progetto di trarre un film dal romanzo breve di A. Schnitzler "Traumnovelle" era in attesa, tra i molti ("A.I." è l'altro ben noto), da parecchi anni, è quindi ovvio che nella sceneggiatura scritta a quattro mani con Frederic Raphael si siano condensate le esperienze e le idee maturate in un ampio periodo, valutabile nell'ordine dei trent'anni.
La lettura, meglio, il viaggio in Eyes Wide Shut può seguire molteplici direzioni, ad un livello superficiale può essere interpretato come racconto di un sogno, di Bill Harford, della moglie Alice, dell'incastro tra le loro differenti ipnerotomachie od ancora della mise en scene di entrambe; pare invece a noi di intravedere un passaggio ulteriore cui da luogo la depurazione dei fattori di narrazione della narrazione, fino ad essere pura oggettivazione dell'estremo soggettivo ch'è la vita sognata: non costruzione di discorso, od almeno in forma limitata, quanto gioco sul palcoscenico del subconscio di un giovane medico newyorchese martoriato dalla lotta con e contro i propri impulsi erotici, un vanilla american nella definizione dello stesso Kubrick, sul modello di Harrison Ford da cui Harford, cognome del protagonista.
In tal senso vanno lette le interpretazioni dei protagonisti, quella "imbarazzata" di Tom Cruise (continua la sua difficoltà nel gestire mani e sguardi), individuo sbalzato nel glamour sessuale del suo Io stereotipico/ancestrale e quella "teatrale" di Nicole Kidman, la sua Alice è estranea al mondo -non solo filmico- legata, pare, alla sola domesticità, al di fuori del lussuoso appartamento di New York gli atteggiamenti sono esagitati, eccessivi, barcollanti e specchio di infedeltà, non solo quella - reale? - coniugale quanto legati al senso di inadeguatezza, quello non è luogo che le pertenga: ricerca la certezza del senso, non l'ondivaga verità del meneur du jeu Sidney Pollack.
Protagonista reale ed indiscusso di Eyes Wide Shut è però la frustrazione, sessuale e sociale cui è vittima il benestante medico esposto all'inveire delle proprie pulsioni (im)mediate, sgorgate nella notte umida ed avvolgente, per luci e colori, della metropoli: luogo in cui l'individuo fonde la propria isolatezza con la costrizione sociale, rendendo visibili gli spettri del desiderio e del tormento (despair and deception love's ugly twins), la figlia del paziente defunto, la prostituta, le ragazze alla festa che vogliono portare Harford "alla fine dell'arcobaleno", l'orgia meccanizzata, la società segreta. La densità del desiderio schiacciato dalla vita coniugale, dalle convenzioni è tale da farsi pericolo reale, angosciante il crollo delle impalcature, del reticolato preconcetto giudicante; smarrimento, timore della piccolezza (il fascino della teoria della sciarada), baluginare del pensiero che duplice sia il rapporto erotico, sentimento e rapporto fisico sono dunque da riallacciare, di qui la seconda visita alla prostituta, ora malata, il ritorno alla villa - con la Colpa che lì alligna - la ricerca della ragazza sacrificatasi (pia illusione che smaschera la freddezza di Bill) le parole di Alice che, saputa la momentanea verità, propone la soluzione, l'unica che sia data, l'unica possibile per sanare, ricomporre.
Niente è come sembra, parole, distorsioni e visioni di fittizia felicità e pura apparenza (gli alberi natalizi onnipresenti, la festa, la professione di medico a domicilio, gli anelli nuziali). L'incubo soffoca, costringe ma nulla lo divide dalla realtà, un girotondo stretto alla gola del povero malcapitato che non si accorge che il suo tormento si apre e chiude con lo scherzo di G. Ligeti: una nuova luce e ben più irridente dà sollievo.
Il "porno d'autore", il "thriller erotico" del terzo millennio. Questo il "doppio sogno" cui critica e pubblico si sono abbandonati per dodici anni, aspettando quest'opera molto liberamente tratta dal romanzo di Schnitzler, progettata da Kubrick fin dal '68 e fatalmente imperfetta (l'autore non ha potuto completare il lavoro sulla colonna sonora).
Perché si esce spiazzati dalla visione di questo film? Perché, sebbene siano presenti, nel film, tutti i tasselli promessi dal marketing, il puzzle che compongono risulta imprevedibile, sconcertante, perfettamente nuovo, assolutamente non riproducibile. Kubrick si serve degli aspetti psicanalitici della trama, ma soprattutto della sensualità animale dei suoi attori, per allestire un Trionfo della Morte e del Disinganno di gusto medievale, uno spettacolo di enorme potenza e vivacità che mette in scena l'impotenza dell'uomo di fronte all'ignoto, e la sue eterna dannazione terrena, che consiste nell'essere schiacciato da forze oscure, nel ritrovarsi senza memoria del passato, sperduto nel presente, incerto sul futuro, nel sapersi destinato ad una verità parziale, un'illusione onirica.
Essere e sognare sono due facce della stessa realtà, che non può cancellare la Verità eterna, quella del sogno da cui non esiste risveglio. La morte ed il suo pendant nel mondo dei vivi, l'immobilità, raggelano e dominano ogni scena. Lo spazio è popolato di uomini e donne immobili, maschere, manichini, cadaveri, che il regista manipola fondendoli con l'arredamento. La macchina da presa predilige movimenti circolari, suadenti e perfetti, che avvolgono nelle loro spire i personaggi e li soffocano senza pietà. Le luci sfavillanti e le vetrine colorate di New York nel periodo natalizio non ingannano nessuno: prevalgono le zone d'ombra, le luci bluastre, i toni cupi.
Molte sono le critiche che si potrebbero muovere al film: troppo lungo, spesso lento, avaro di emozioni, povero di suspense, scarno e tedioso come una basilica romanica. Ma le perplessità svaniscono quando si considera che la morte dell'uomo, morte non solo fisica ma soprattutto cerebrale e spirituale, non potrebbe trovare un luogo migliore per agire indisturbata. E' una visione pessimistica che non ammette replica, nemmeno quella fintamente ottimista del finale: i protagonisti, circondati dai simboli del sogno americano e della retorica familiare, decidono di abbandonarsi all'istinto e alla dissimulazione, senza più preoccuparsi di avere un cervello, un cuore, una coscienza, e nessuno ci assicura che questo garantirà loro la pace.
Fatalmente imperfetto, il numero 13 della filmografia di Kubrick è un monumento del cinema, duro e cristallino come un diamante, perfettamente coerente, nel pessimismo totale e nell'inesausta cura dei dettagli, con i capolavori di questo autore, da "Barry Lyndon" a "Full Metal Jacket". Una bizzarra coincidenza: nella scena in cui Cruise entra in un bar, si ode un frammento (l'incipit del "Rex tremendae") del "Requiem" di Mozart, altro capolavoro incompiuto a causa della morte dell'autore. Ma si tratta solo di una coincidenza?
Difficile credere che Stanley Kubrick avesse già ultimato l'opera prima della sua morte, conoscendone i tempi biblici in sede di montaggio, dove sfruttava, fra ripensamenti anche dopo le prime proiezioni, le innumerevoli riprese a disposizione della stessa scena: troppe incongruenze, troppe sequenze inutilmente dilatate (vedi la scena delle rivelazioni al protagonista del tipo di Sydney Pollack, che ha sostituito Harvey Keitel), un piano onirico irrisolto, un finale più grossolano che lieto. New York mal si maschera come la Vienna degli anni venti, quella in cui era originalmente ambientato il romanzo breve da cui è tratto il film, “Doppio sogno” di Arthur Schnitzler (chissà se Kubrick ha visto Genealogia di un Crimine di Ruiz): niente, però, ci rivela che stiamo vivendo un sogno freudiano e non le incredibili peripezie di un Tom Cruise dal personaggio totalmente contraddittorio. È anacronistico e non surreale mantenere la figura del pianista intruso nell'era della tecnologia Hi-fi o voler far credere nell'ingenuità di un protagonista che non riconosce una prostituta. Kubrick omaggia l'Ophuls di Il Piacere e l’Amore (la macchina da presa "danzante" al primo party), scopre l'enigma del titolo "occhi aperti/chiusi" nella scena in cui Cruise e Kidman si toccano davanti allo specchio e lei si fissa senza trasporto o attraverso i sogni lussuriosi che lei racconta (magnetica, ricca di pathos la prima "confessione"). È, potenzialmente, grande cinema, giocato fra Lolita (la ninfetta del negozio di costumi), il suo borghese istinto sessuale peccaminoso e Shining: stessa fotografia rossastra (non più di sangue ma di desiderio), stessa sensazione da incubo durante la magnifica sequenza dell'orgia massonica (degna del party depravato de Il Servo). Eros e Thanatos si rincorrono all'insegna dell'impotenza generata dalla gabbia del matrimonio (lei sogna accoppiamenti bestiali, lui li vede dal vero senza consumarli). La maschera accanto alla bellissima Kidman è il tradimento. Le pulsioni inconsce esplodono e sono castigate. L'incantato commento sonoro fra sinfonica, etnica e uso ossessivo di tasti del pianoforte (brano di György Ligeti), accarezza la seducente angoscia.
A distanza di circa un anno dalla visione cinematografica di Eyes wide shut e di pochi giorni dalla vendita in home video, è sempre presente la sensazione che quest' ultima opera di K. sia gelidamente incompiuta, in particolar modo in fase di montaggio, come dimostra la fase finale sorprendentemente priva di suspense se si considerano le soluzioni narrative adottate nelle sequenze iniziali.
Come sempre le immagini di K. sono di straordinaria densità metalinguistica ed è fin troppo semplice perdersi nelle innumerevoli citazioni cinematografiche (anche autoreferenziali).
Tuttavia questi rilievi si mostrano incredibilmente marginali quando una illuminante battuta proferita da Tom Cruise svela l'essenza del film:
"Quale sciarada si conclude con la morte di una persona?"
Risposta: la vita.
E la morte?
"Non cercare di indagare altrimenti sarà peggio per te" perché risolvere l'enigma vita/morte può essere una mera operazione tautologica in quanto esprime due risvolti di una medesima messinscena come lo stesso "regista" Sidney Pollack suggerisce.
Amara riflessione - testamento che vuole rappresentare la solitudine esistenziale dell'Uomo di fronte al Mistero per eccellenza.
Emblematico, in questa chiave di lettura, il costume che T.C. indossa nella claustrofobica sequenza che lo/ci vede assistere a macabri rituali che richiamano il suggestivo e delittuoso connubio sesso/morte.
Difatti è d'uopo sottolineare che, nel bergmaniano Il settimo sigillo, la Morte, che finisce col dare scacco matto al cavaliere, veste in modo simile (superfluo ricordare che il "Gioco degli Scacchi" è quello preferito da K. ).
Inoltre è quasi prostrante il dolore che incombe nella vanità della sontuosa e luttuosa mise in abime e negli sguardi che rivelano il sottile ed insidioso inganno che amore ed arte concettualmente presuppongono sotto il profilo estetico-filosofico (ambedue mirano alla seduzione).
Ergo mai come in questa pellicola il regista ci conduce, con eleganti e sinuosi movimenti di macchina, a visitare numerosi ambienti (set) interni, tutti dettagliatamente definiti (da notare lo splendore e la ricerca formale addirittura abbaglianti nella ubriacante, ophulsiana scena del ballo che significativamente di-mostra il "gioco" dell'attrazione sessuale).
Dov'è la Verità?
Forse over the rainbow.
Quale forma assume?
Circolare.
K., folle/genio per mal de vivre, sulle orme di Nietzsche, crede nell "eterno ritorno" e negli ultimi fotogrammi possiamo osservare un negozio di "gioca-ttoli" con alcune scatole sulle quali si può leggere: "magic circle" e Nicole Kidman che conclude dicendo: "Ritorniamo a scopare (to fuck)".
Beffardamente ,K chiude la sua filmografia con un falso thriller, una falsa storia di sesso e d'amore, un falso saggio morale sulle ipocrisie borghesi.
F for fake F for fuck.
Sergio Sasso