
TRAMA
1945, Isola di Iwo Jima. 20000 soldati giapponesi tentano di resistere all’attacco di 100000 soldati americani. E’ un’impresa disperata e lo sanno.
RECENSIONI
Eastwood chiude il suo dittico e fa slittare il fulcro narrativo-emotivo dal generale al particolare. La scelta è esplicitata fin dal titolo: dalla Bandiera, simbolo della nazione e motore di un (banale) ragionamento sulle menzogne e le ipocrisie “pubbliche” che mascherano l’assurdità della guerra, si passa alla Lettera, dunque alla dimensione privata, “intima” della guerra stessa. Tecnicamente simile al suo gemello, con fotografia desaturata, robuste sequenze belliche e prosa cinematografica (ancora più) asciutta, Letters ha pochi ma ben congegnati momenti in cui si sovrappone visivamente a Flags, sia come mera ripetizione (i campi lunghissimi sulla flotta americana) che in termini di “controcampo differito” (il monte Suribachi visto dai giapponesi) e altri in cui sono le due sceneggiature a dialogare da punti di vista opposti (il pericolo che corrono i medici americani sul campo di battaglia); ma è soprattutto nella struttura portante che i due film si presentano omozigoti, essendo entrambi costruiti come un lungo flashback all’interno del quale gemmano altri flashback. Quello che cambia, anche se non diametralmente, a ben vedere, è la sostanza: in Flags, i salti temporali servivano a dimostrare progressivamente la tesi centrale del film, a parcellizzare inutilmente un già chiarissimo messaggio (all’epoca scrissi che i continui flashback diventavano infine “un inutile giochino formale”. Mi permetto di sottoscrivermi), in Letters invece la volontà apparente è quella di costruire un coro di voci sole vagamente malickiano. “Apparente” e “vagamente” perché in realtà, se è vero che Letters lascia spazio ai pensieri/ricordi soggettivi dei suoi protagonisti (mostrandosi dunque più “umanamente sentito” di Flags), è altrettanto innegabile che non si tratta di indistinti flussi di coscienza à La sottile linea rossa. Una tesi di fondo, seppur meno pesante e invasiva di quella di Flags of our fathers, c’è anche in Letters from Iwo Jima ed è quella dell’omologia “umana” tra giapponesi e americani, entrambi vittime della Guerra (e letteralmente “amici” a prescindere da essa, come dimostra il passato del generale Kuribayashi e quello del barone Nishi). Tale tesi è incontrovertibilmente dimostrata nel momento in cui la lettera della madre del soldato americano rende epifanicamente consapevoli i soldati giapponesi che la mamma è sempre la mamma, comunque e ovunque. Non sarà granché ma è quanto di meglio ha da offrire il cinema di Eastwood, col suo (neo?post?)classicismo crepuscolare, etico, elegiaco, sempre e comunque vicino a vittime, sconfitti e mor(i)t(ur)i.
