Bellico, Recensione

LETTERE DA IWO JIMA

Titolo OriginaleLetters from Iwo Jima
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2006
Genere
Durata140'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

1945, Isola di Iwo Jima. 20000 soldati giapponesi tentano di resistere all’attacco di 100000 soldati americani. E’ un’impresa disperata e lo sanno.

RECENSIONI

Eastwood chiude il suo dittico e fa slittare il fulcro narrativo-emotivo dal generale al particolare. La scelta è esplicitata fin dal titolo: dalla Bandiera, simbolo della nazione e motore di un (banale) ragionamento sulle menzogne e le ipocrisie “pubbliche” che mascherano l’assurdità della guerra, si passa alla Lettera, dunque alla dimensione privata, “intima” della guerra stessa. Tecnicamente simile al suo gemello, con fotografia desaturata, robuste sequenze belliche e prosa cinematografica (ancora più) asciutta, Letters ha pochi ma ben congegnati momenti in cui si sovrappone visivamente a Flags, sia come mera ripetizione (i campi lunghissimi sulla flotta americana) che in termini di “controcampo differito” (il monte Suribachi visto dai giapponesi) e altri in cui sono le due sceneggiature a dialogare da punti di vista opposti (il pericolo che corrono i medici americani sul campo di battaglia); ma è soprattutto nella struttura portante che i due film si presentano omozigoti, essendo entrambi costruiti come un lungo flashback all’interno del quale gemmano altri flashback. Quello che cambia, anche se non diametralmente, a ben vedere, è la sostanza: in Flags, i salti temporali servivano a dimostrare progressivamente la tesi centrale del film, a parcellizzare inutilmente un già chiarissimo messaggio (all’epoca scrissi che i continui flashback diventavano infine “un inutile giochino formale”. Mi permetto di sottoscrivermi), in Letters invece la volontà apparente è quella di costruire un coro di voci sole vagamente malickiano. “Apparente” e “vagamente” perché in realtà, se è vero che Letters lascia spazio ai pensieri/ricordi soggettivi dei suoi protagonisti (mostrandosi dunque più “umanamente sentito” di Flags), è altrettanto innegabile che non si tratta di indistinti flussi di coscienza à La sottile linea rossa. Una tesi di fondo, seppur meno pesante e invasiva di quella di Flags of our fathers, c’è anche in Letters from Iwo Jima ed è quella dell’omologia “umana” tra giapponesi e americani, entrambi vittime della Guerra (e letteralmente “amici” a prescindere da essa, come dimostra il passato del generale Kuribayashi e quello del barone Nishi). Tale tesi è incontrovertibilmente dimostrata nel momento in cui la lettera della madre del soldato americano rende epifanicamente consapevoli i soldati giapponesi che la mamma è sempre la mamma, comunque e ovunque. Non sarà granché ma è quanto di meglio ha da offrire il cinema di Eastwood, col suo (neo?post?)classicismo crepuscolare, etico, elegiaco, sempre e comunque vicino a vittime, sconfitti e mor(i)t(ur)i.