Drammatico, MUBI, Recensione

ORE D’ESTATE – L’HEURE D’ÉTÉ

Titolo OriginaleL'heure d'été
NazioneFrancia
Anno Produzione2008
Durata103'
Sceneggiatura
Fotografia
Montaggio

TRAMA

Frédéric, Adrienne, Jérémie e famiglia si ritrovano nella casa avita di campagna per il compleanno della madre che ha consacrato la sua esistenza alla posterità dell’opera dello zio, famoso pittore. La scomparsa improvvisa della donna obbligherà i fratelli a confrontarsi con gli ingombranti oggetti del passato.

RECENSIONI

È sintomatico che, se si eccettua Ozon, quelli che possono considerarsi i registi francesi più importanti dell'ultima generazione (Olivier Assayas, Arnaud Desplechin, Christophe Honoré) siano anche i più penalizzati dalla nostra distribuzione. Buona parte della loro produzione risulta irreperibile in una versione italiana, anche quando si tratti di conclamati capolavori (nel caso di Assayas ci pare scandaloso l'aver tralasciato, oltre al presente film, un'opera di rara finezza come Fin août, début septembre o un lavoro complesso e ambizioso, la punta di diamante di una produzione che si è mossa sempre su livelli altissimi, come Les destinées sentimentales). Dopo tre film giocati sul campo della mondializzazione e che allargavano le coordinate geografiche, culturali e linguistiche del cinema del Nostro (la riflessione sulla modernità e i suoi feticci di Demonlover; la struggente, incantevole parabola dell'amatissimo Clean; la sottovalutata nuova incursione nel genere di Boarding gate  [1] - opere anticipate da un titolo chiave come Irma Vep -), Assayas torna a misurarsi con un lavoro intimista e personale: L'heure d'été riporta il regista sul campo sensibile dei rapporti umani, della famiglia, del lutto, secondo il verbo bergmaniano da sempre frequentato (si legga a tal Conversazione con Ingmar Bergman di Olivier Assayas e Stig Björkman, Lindau, 1994).

Nella vecchia magione, simbolo di una memoria in via di sparizione - memoria che impolvera palesi oggetti d'affezione che sono, e questo è il punto, anche opere d'arte e dunque elementi a metà strada tra il disperdersi (veniale, ma pratico) e il conservarsi (amorevole, ma utopico), in doloroso bilico tra pubblico e privato -, la madre elenca puntigliosamente al figlio tutto ciò che è ivi contenuto: la donna sa che la logica spartitoria sarà quella che prevarrà e, messa da parte qualsiasi illusione di mantenere l'unità (patrimoniale, familiare), parla il cinico linguaggio dell'inventario e della sua realistica destinazione, contro il miraggio conservativo del figlio, illusione coltivata caparbiamente, ma nel cui accanirsi si rischierebbero (Hélène lo intuisce) maggiori danni; tale illusione verrà, del resto, ineluttabilmente smentita dai fatti: i fratelli si stanno definitivamente allontanando (il futuro si distanzia dall'Europa, continente tutto di ricordi e testimonianze del passato - non a caso vi rimane solo Frédéric, colui che piange il disperdersi delle vestigia avite -), ciascun familiare ha la sua vita, non esiste più un terreno comune, neanche metaforico, sul quale confrontarsi. Questa lunga scena a due, che sembra ridursi allo scorrere di un elenco e alla dimostrazione degli articoli dell'eredità, posta all'inizio del film, racchiude il senso narrativo dell'opera e prelude al discorso sul distacco dalla materialità delle cose.

Nell'incipit, insomma, già si toccano i nodi centrali: la lacerante liquidazione del passato, i modi di gestire il "dopo", come intendere il perpetuarsi del ricordo e di una possibile unione familiare, il senso e il valore (intrinseco ed estrinseco) che si attribuiscono alle cose; la burocrazia della morte e la contabilizzazione della "roba" non annullano sentimenti e ricordi, anche se gli oggetti che li rappresentano ritornano a essere mera sostanza; nel museo, infatti, l'oggetto, rimosso l'alone d'umanità che lo ricopriva, ritrova la sua freddezza, riprendendo la sua essenza puramente materica, ma quel che rappresentava a livello affettivo continua a vivere, fuori dalla cattività della gabbia di vetro in cui è conservato: anche il tesoro affettivo prodotto dalla cosa finisce con l'essere custodito, come il suo omologo concreto, ma non in un luogo fisico, bensì nell'animo di coloro che lo hanno posseduto.

La macchina da presa di Eric Gautier (non a caso habitué anche di Desplechin), in relazione all'intimità del tema e alla posata analisi dei sentimenti e delle relazioni tra i personaggi (distacco e serenità nell'indagine che dicono dell'enorme influenza che il cinema orientale continua ad esercitare sul regista), è più misurata e meno inquieta del solito; essa aderisce, come il lavoro sulle luci, al tono dolente e meditativo del lavoro, non rinunciando Assayas ad alcune sue unghiate tipiche: la sequenza del giardino racconta dello sguardo nella casa vuota della governante Eloise (personaggio di chiare ascendenze bergmaniane, che sembra non arrendersi al fatale precipitare degli eventi, piccolo insignificante baluardo contro il futuro che avanza implacabile - lei che guarda il vaso che le viene regalato per quello che rappresenta e non per quello che vale -); l'inversione che questo momento opera rispetto alla consueta prospettiva prediletta dall'autore (dall'esterno all'interno) dimostra che è il soggetto il centro costante della sua attenzione, non l'ambiente, non gli oggetti, come confermato dalle altre visioni "filtrate" di questo film - quella attraverso il vetro della teca del museo o il parabrezza dell'auto di Frédéric, per esempio -).
[vedi foto a dx, in alto e in basso]

L'ultima sequenza della festa riassume i temi del film (la casa si anima per l'ultima volta dello spirito del passato attraverso i personaggi che, al contrario, rappresentano il futuro, l'ultima generazione che se ne allontana) in una gioiosa (e malinconica) frenesia che ci riconduce all'Assayas più libero e meno controllato (impossibile non pensare a L'eau froide). Il regista, che (ricordiamolo) viene dalla critica, conferma che autorialità e immediatezza non sono termini contraddittori, offrendoci una bellissima opera corale, densa di significati e riflessioni sorprendentemente attuali che, evitando facili banalizzazioni sentimentalistiche, tocca corde comuni con sfolgorante sensibilità, presentandosi, nello stesso tempo, intensa e viva.
Per il personaggio di Adrienne, qui interpretato da Juliette Binoche, è previsto un ritorno in un film futuro, Le temps de venir.

[1] Ci sentiamo di citare anche quello che è l'unico episodio memorabile del film collettivo Paris, je t'aime, Quartiere des enfants rouges, una manciata di minuti da ko.