Drammatico

LAISSEZ-PASSER

Titolo OriginaleLaissez-Passer
NazioneFrancia/ Germania/Spagna
Anno Produzione2002
Durata170'
Fotografia
  • 45786
Montaggio
Scenografia

TRAMA

Nella Parigi occupata dalle truppe naziste, alcuni artisti cinematografici lavorano alla Continental, casa di produzione controllata dai tedeschi.

RECENSIONI

Un fremito di maliziosa curiosità e spazientita accondiscendenza percorre il corridoio di una piccola pensione parigina: gli ospiti si celano (o no) dietro le porte (soc)chiuse, in attesa della fulminea comparsa della celebre attrice che tenta di sgattaiolare in tutta segretezza nella camera del proprio amante. È il momento dell’amore, ma ecco che le bombe iniziano a cadere sulla città: bisogna correre al rifugio, ma può la giovane diva mettere a repentaglio l’invisibilità? È tutto qui, in questo prologo di squisito nitore, lo spirito e il significato del nuovo film di Bertrand Tavernier: l’inestricabile gioco delle apparenze, il peso di vivere e l’amara spensieratezza dell’essere, la tetra magia delle immagini in movimento (Parigi brucia, e i fotogrammi brillano di funebre splendore) sono il vero soggetto di un film “storico” che parla (anche) del presente.
Frettolosamente bollato, in patria e altrove, come opera d’infame revisionismo, il film non ha compiti didattici da espletare o apoteosi da celebrare a tutti i costi. I ricordi dei protagonisti (il regista Devaivre e lo sceneggiatore Aurenche), citati nei credits e nel finale, sono per il regista il punto di partenza (il pretesto?) di un omaggio al mondo del cinema francese degli anni Quaranta (e non solo), e ancor più l’accidente a partire dal quale costruire una polifonia in cui la Storia si riflette per caso, non per azzardo. Il racconto, condotto con ritmo spigliato e mirabile inventiva, porta con sé (come le comparse e i tecnici muniti di volantini antinazisti) il germe di una riflessione lucida e priva di rancore su conflitti e contraddizioni che, piaccia o no, sono una costante della natura umana.
Il tratto distintivo dei personaggi che animano l’intreccio sembra essere la menzogna, l’ambiguità: artisti (quindi bugiardi di professione) pagati dagli occupanti per girare film di successo, forzati a lavorare in condizioni precarie e sotto sorveglianza, capaci di rivendicare una sorta di autonomia nella vita (il contratto perennemente in bianco, le maldestre azioni di controspionaggio) e soprattutto nell’arte (il senso nascosto nella tirata di Baudu in Al Paradiso Delle Signore di Cayatte, che l’attore recita ignorando ostentatamente la presenza dell’amministratore tedesco). La stessa Parigi, coi cannoni della contraerea nazista che fioriscono dalle linee liberty degli stabili, è complice di una bugia (im)pietosa, e cela con un frivolo sorriso ferite che emergono, come bombe nella notte gelida e serena, in un istante (la stella di David, il passaggio dell’autobus).
È possibile “resistere” anche attraverso le storie private (l’attivismo di Devaivre, le amorose menzogne di Aurenche) e pubbliche (i film), illuminando la vita attraverso un’arte che nasce dal quotidiano, opponendo alla devastazione operata dal nemico la consapevolezza di lavorare per il proprio Paese, senza parlare della forza insospettata che può nascere dalle umiliazioni subite (il pasto in casa dell’antiquario, l’epilogo): l’origine letteraria di gran parte dei film citati o rappresentati permette un riferimento alle novelle di Maupassant, nelle quali i veri eroi di guerra sono le puttane (il bordello in cui trova rifugio lo sceneggiatore).
Oltre ogni considerazione storiografica o nebulosamente morale, Laissez – Passer è un esemplare perfetto (a tratti anche troppo) di quel cinema classico che, sia di papà o di nonno, riesce a stregare per brio, ironia, puntigliosa ricostruzione d’ambienti. Un velo di compiacimento (le presentazioni del gotha del cinema francese) rende ancora più gustoso un puzzle basato sulle immagini (la frenetica macchina da presa, un gusto hitchcockiano per la tensione) non meno che sulle parole (il nitido script è firmato dal regista e da Jean Cosmos), un inarrestabile fiume di celluloide che regala frammenti d’incanto (la muta disperazione di Tourneur, attenuata dalla magia delle luci in grado di costruire una finestra inesistente) e interpretazioni di classe inarrivabile.