TRAMA
Anaïs ha trent’anni, è senza un lavoro, vive alla giornata in un appartamento che non può permettersi… e corre. Corre sempre e sembra essere inafferrabile, così come lo sono suoi pensieri. La sua vita è così frenetica che nemmeno il suo fidanzato, di cui lei ogni tanto si scorda, sembra riuscire a fermarla.
RECENSIONI
«La storia della mia vita non esiste. Proprio non esiste. Non c’è mai un centro, un percorso, una linea. Ci sono vaste zone dove sembra che ci fosse qualcuno, ma non è vero, non c’era nessuno.»
Questo scrive Marguerite Duras nel suo celebre L’amante (Feltrinelli, 2015, trad. L. Prato Caruso). E Marguerite Duras è, per rimandi o esplicite citazioni, uno dei fili conduttori del lungometraggio d’esordio di Charline Bourgeois-Tacquet. Émilie Ducret (Valeria Bruni Tedeschi), scrittrice amata e affermata, sorta di Valérie Perrin fictionale, richiama l’autrice, nata a Saigon, per un volume custodito con cura e poi perduto (o indebitamente sgraffignato?). Un prestito, ci rivela, da parte di un’insegnante per la quale aveva preso una cotta, colei che ai tempi della scuola aveva saputo sobillare con intelligenza le predisposizioni della futura romanziera, che le aveva consentito di sondarle e, in seguito, di farle esplodere. Un prestito mai più reso. Émilie si riferisce a un’edizione de Il rapimento di Lol V. Stein, testo densissimo, singolare e sfuggente, che fa scivolare nell’agnizione (del vero sé) ciò che appare all’impronta come un tradimento dei più sfacciati: «Tatiana non credeva, lei, che solo da quel ballo fosse dipesa la follia di Lol V. Stein […] In collegio, dice, già le mancava qualcosa, era già stranamente incompleta […]» (M. Duras, Il rapimento di Lol V. Stein, Feltrinelli, 1989, trad. di C. Lusignoli, riveduta da L. Prato).
Duras stessa, ne I miei luoghi. Conversazioni con Michelle Porte (Ed. Clichy, 2013, trad. T. Gurrieri), ammette di non sapere dove guardare, quando si tratta di Lol V. Stein, esprimibile solo se celata da un mucchio di sabbia. Proprio tra la sabbia, durante un bagno agognato, ma allo stesso tempo improvvisato – la benedizione delle coincidenze – avviene la prima, vera fusione tra i corpi di Émile e Anaïs. Quest’ultima, che ha appeso in casa un poster che ritrae il profilo stilizzato di Marguerite Duras (Intime Duras, una mostra, forse, o un seminario universitario a tema), ricorda, con un tempismo fortuito e sorprendente, un’altra figura femminile di questa stagione cinematografica, forse più feconda di stimoli di quanto si voglia ammettere: Alana Kane/Haim di Licorice Pizza.
Un particolare grado di somiglianza, rispetto per esempio a un lavoro come Jeune et Jolie, di Ozon, col quale condivide soltanto la fame di vita, è dunque riscontrabile, pensando alla quasi trentenne protagonista di Paul Thomas Anderson, che Anaïs per certi versi pare emulare, senza saperlo. In questo caso, come in quello, coincidono i nomi dei personaggi con quelli delle attrici (e che splendore, Anaïs Demoustier, già apprezzata in Alice e il sindaco: rifulge per tutto il film come una giovane Isabelle Huppert). Entrambe sembrano poi avere un debito inesprimibile/insopprimibile, come moto interiore, nei confronti del tempo, che corrono, bruciano, affaticano, soverchiano, rimandano; e che non sanno vivere. Il tempo, inteso anche come tempo generazionale post-moderno, contratto da bisogni e stimoli antitetici, che coesistono – crescere in fretta, esaurire in fretta ogni desiderio possibile e immaginabile e non crescere/non saper crescere mai – riporta il pensiero, di nuovo, a Duras, letta da Lacan per i Cahiers Renaud-Barrault (Gallimard, 1965, n° 52): «Lol V. Stein: ali di carta, V forbici, Stein la pietra, al gioco della morra – dell'amore – finisce che ti perdi.» (l’intervento, tradotto da A. M. Boetti e E. Donda, è reperibile qui).
Si perde, sì, Anaïs, almeno rischia di perdersi, per ragioni in parte sovrapponibili a quelle per le quali si perdeva Alana. Un tempo quindi generazionale, ma più ancora, per il modo in cui viene raccontato, generazionale-femminile-plurale. Il tempo che postula invece di lasciar costruire, che genera un’irresolutezza paradossalmente satura (di amori, di impegni, di debiti, di tutto). Non è un caso se Bourgeois-Tacquet sceglie di citare, anzi, di mostrare, un estratto da La sera della prima, di John Cassavetes. Il pretesto è cinematografico: Émile deve far proiettare un film su una donna che scrive e, non trovando nulla di convincente, si orienta su un ritratto di donna, e basta. La profondità del testo parla piuttosto alla storia delle due protagoniste di Gli amori di Anaïs, seconde donne ciascuna per sé, incomplete/incomprese per definizione; non Myrtle e Nancy – benché l’anagrafe e i ruoli reciproci richiamino in astratto il paragone – ma una loro combinazione paradigmatica: sei bella/è bella – Anaïs/Gena Rowlands. In ciò, ovvero nella meccanicità di certe dinamiche affettive e nella strumentalità della relazione pretesto-testo, con dei personaggi utilizzati a scopo dimostrativo, o poco più (penso all’ex fidanzato di Anaïs, Raoul, ma anche allo stesso Daniel, meteora inefficace, terzo incomodo di un ménage à deux), rilevo il maggiore limite del film.
Intendiamoci: la regista ha chiarissima (forse troppo? Forse è questa necessità di teorizzazione il “problema”?) la meta, narrativa, ma anche, potremmo dire, emotiva a cui intende approdare. È il percorso umano per giungervi, che diviene talvolta un mero correlativo oggettivo.
L’epilogo del gineceo filmico – perché questo lavoro, non privo di timide incursioni maschili, resta orientato verso l’analisi dell’in-eterno femminino – allora non può che ricondurre, come era lecito sospettare, alla penna di Marguerite Duras e al romanzo che torna nelle mani della legittima proprietaria: «Nego la fine che verrà probabilmente a separarci, nego la sua facilità, la sua semplicità desolante, perché dal momento che nego questa fine, accetto l’altra, quella che è da inventare, quella che non conosco, che nessuno ha inventato ancora: la fine senza fine, il principio senza fine di Lol V. Stein.» (M. Duras, op. cit.)
Anaïs, che per anni – si presume – ha continuato a saltellare, eludere, mentire, adesso sceglie, finalmente; dismette i panni di un personaggio, che non ha compreso mai fino in fondo, e debutta da persona, da condottiera e non già da condotta dalle cose dell’esistenza. Anaïs non ragiona più in termini feticistici – se tocchi ciò che è mio, devi farlo sparire perché lo hai contaminato – e può restituire il libro che ha, facile ipotizzarlo, a questo punto, sottratto. L’azione che Émilie non aveva saputo/voluto compiere con l’adorata – dunque soltanto idealizzata – professoressa Garcia.
Per estensione, il suo spazio fisico, quello che riempiva della sola sé stessa, che non poteva spartire con altri (da cui un’idea anche abbastanza bislacca di claustrofobia, che la costringe a scalare piani su piani a piedi), può essere condiviso; l’incontro non è più temuto come qualcosa di intimamente predatorio.
Come l’idea – semplice, mica tanto – di affrontare insieme qualche piano in ascensore. Non sappiamo quanti, ma ne immaginiamo molti, molte volte: un principio che non conosce fine, appunto, che, per quanto possibile, si consente di vivere.