Erotico, Recensione, Sentimentale

LA VITA DI ADELE

TRAMA

Adele e Emma : una storia d’amore intensa e fugace nella provincia di Lille.

RECENSIONI

Il respiro dell'attimo

Dopo il mezzo passo falso di Vénus Noire, troppo controllato e vittima della logica che si prefiggeva di stigmatizzare, Abdellatif Kechiche sfiora la vetta del suo cinema: puro, più vero del vero, più vivo della stessa vita. La fonte, un fumetto firmato Julie Maroh (Le Bleu est une couleur chaude), è puramente aneddotica, così come lo è la 'storia', straordinariamente ordinaria e quasi totalmente sprovvista di eventi dinamici. Il cinema dell'autore di La Graine et le mulet è infatti fattuale, non evenemenziale. Come già in passato, il narratore rende infinito l'istante, temporalmente e semanticamente, per poi voltare bruscamente pagina. La Vita di Adele è costellata di macro-scene (tempo della storia e tempo del racconto coincidono). Ed ogni scena vive, pulsa, respira. Ogni frammento è cosi saturo da richiedere di essere preceduto e seguito da un vuoto. Il ricorso ad ellissi è inevitabile.

Soffocare il profilmico

Ancor più che nei suoi film precedenti, la molteplicità dei punti di vista, ottenuta eternizzando al limite dell'esaurimento le riprese, fa saltare le prospettive, la logica stessa del campo-controcampo e rende impossibile l'individuazione di un singolo punto di fuga. La macchina da presa ruota, penetra, coglie, valorizza l'imprevisto (una foglia nei capelli di Adele), bracca e stringe: Adele e Emma distese su un prato, una frase (on est bien là), un lungo sospiro, le fronde degli alberi mosse dal vento; Adele che perde il filo del discorso guardando negli occhi Emma; Adele che balla da sola I Follow Rivers dopo l'amore, pensando ad Emma; Adele che piange e divora barrette di cioccolato; Adele sola, distesa sulla 'loro' panchina. Momenti di grazia infinita, che tolgono il fiato e struggono. La grande forza di uno dei più grandi autori francesi viventi risiede in un paradosso apparente: 'soffocare' il profilmico (persone, cose, ambienti) per far respirare la vita. E il miracolo si rinnova costantemente.


Io sono l'Amore

Kechiche destruttura l'impianto tradizionale del racconto di formazione identitario negando il momento generativo o risolutivo delĺ´autoidentificazione: 'sono gay', 'sono lesbica'. Nessuno si dice, nessuno si qualifica, né Adèle, né Emma. Tuttavia, l'autore non scompagina seguendo un piano strategico. È il suo sguardo a fare la differenza, una differenza che non è di natura sessuale. La Vita di Adele è un film sull'amore che nasce e che muore per cause e ragioni che trascendono il 'caso' e che si impongono nella loro semplice e sconvolgente evidenza. L'evidenza delle cose che conosciamo e delle quali preferiamo non ricordarci: manipolazione, legge del più forte, gap culturale, desiderio d'altro, gelosia, fine. Le attrici, generose, immense, atterriscono per candore e crudeltà. Con una differenza sostanziale: Léa Seydoux recita, Adèle Exarchopoulos... è.

Il naturalismo è (in) vita

Chi ha accusato e accusa Kechiche, a priori (“il regista è un maschio eterosessuale”) o a posteriori (“quelle interminabili scene di sesso”) di voyeurismo non si merita lo statuto di teorico Gender e ancor meno quello di critico illuminato. Come non cogliere la costanza e la coerenza di un occhio che assedia, più che pedinare, i personaggi solo per carpire la verità di un gesto? Kechiche filma nella stessa maniera un amplesso tra due fanciulle e i bambini di una scuola elementare, due corpi nudi e ansimanti e uno spettacolo scolastico di fine anno. Il naturalismo è (in) vita. Ed è questa la sola cosa scioccante di La Vita di Adele.

Più che all’albo illustrato Le bleu est une couleur chaude di Julie Maroh (che ha preso le distanze da questa trasposizione), Abdellatif Kechiche si rifà ancora all’amato Marivaux, che apre la pellicola con “La vie de Marienne” (letto in classe). Il centro pulsante di questa Palma d’Oro a Cannes, come di tutte le pellicole del tunisino, sono le recitazioni, i sentimenti colti dalla macchina da presa, rubati da uno stile che esige dagli interpreti che portino se stessi davanti all’obiettivo, la “verità” (vera sofferenza, vere lacrime e scene di sesso “reali” con protesi). Elemento che ottiene filmando anche di nascosto, quando non c’è “recitazione” (così il nome della protagonista del fumetto, Clémentine, è stato cambiato in Adele, il nome dell’attrice che la interpreta), alla ricerca della massima spontaneità: ci sono voluti, ad esempio, dieci giorni per filmare le scene di sesso, fra le più “vere”, in zona saffica, della storia del cinema (le due interpreti hanno, infatti, accusato il regista ed i suoi metodi). Gli unici difetti dell’opera albergano nella lunghezza spropositata, non necessaria, e in una prima parte troppo compressa nel romanzo di formazione all’omosessualità, con le scoperte dell’adolescente fra imbarazzi e vergogna. Poi scatta l’amour fou truffautiano, che diventa passione tout court, racconto sentimentale di un cuore dedito all’oggetto d’amore, e di un oggetto d’amore che, votato (anche) all’arte, aumenta le distanze e, a disagio, tenta di farsi sostituire con un’altra passione (lo scrivere): il tradimento viene da Adele, ma Kechiche non ne fa causa del suo male. Anche perché prima c’è stato quello di Emma, che non ha scelto l’abbandono totale. Un cinema in cui Kechiche, lontano dagli sguardi corali delle opere precedenti, vive dei primi piani su Adèle Exarchopoulos, del suo sguardo perennemente sconvolto prima e immensamente sofferente poi, disegnando sentimenti ed emozioni attraverso dettagli ed azioni eloquenti, senza parole.