TRAMA
In un mondo colpito da un’ondata di mutazioni che stanno gradualmente trasformando alcuni esseri umani in animali, François fa tutto il possibile per salvare sua moglie, colpita da questa misteriosa condizione. Mentre alcune creature scompaiono in una foresta vicina, François parte con il figlio sedicenne Émile per una ricerca che cambierà le loro vite per sempre.
RECENSIONI
«L'intruso non è nessun altro se non me stesso e l'uomo stesso. Non è nessun altro se non lo stesso che non smette mai di alterarsi, insieme acuito e fiaccato, denudato e bardato, intruso nel mondo come in se stesso, inquietante spinta dello strano, conatus di un'infinità escrescente»
Jean-Luc Nancy, L'intruso
Thomas Cailley, talentuoso quarantenne francese, riprende da dove l'avevamo lasciato un decennio fa con l'esordio The Fighters - Addestramento di vita (titolo internazionale Love at First Sight, in originale era il molto più centrato Les combattants). Riprende in parte da se stesso riprendendo temi, spunti e impianti atmosferici (il ritorno allo stato di natura, la catastrofe incombente, il mondo salvabile solo dagli adolescenti, il rapporto tra i sessi) ma - come un fast forward di dieci anni - tanto è accaduto e tanto è cambiato perciò aggiornamenti e virate sono numerosi e necessari. Cailley riprende mettendosi in linea, anzi in linee. Innanzitutto la linea sci-fi della mutazione genetica come metafora dell'intrusione tanto sociale, politica quanto biologica e esistenziale - L'invasione degli ultracorpi sommato alla Mosca di Cronenberg può dare come risultato il Teorema di Pasolini? Come scrive ancora Jean-Luc Nancy, "bisogna che vi sia un che di intruso nello straniero che, altrimenti, perderebbe la propria estraneità". Esiste una filogenesi della mutazione legata a doppio filo e fusa con lo xeno. Molte le possibili reazioni dell'area concettuale con l'attualità cominciando dalla più ovvia e calda nella nazione dove il Rassemblement National lepenista raccoglie un voto su tre ed è a un passo dalla presa del potere. Nel film la retorica xenofoba, le ronde, le t-shirt anti-creature nella provincia guascona danno un raggelante effetto presa diretta. C'è poi un'altra linea circoscritta che ha a che fare con il lavoro collettivo fatto dal cinema francese recente sommando il genere all'engagé, al militante attuale. C'è il caso del capolavoro di Giannoli, Illusioni perdute, che usa Balzac e il genere letterario / in costume per parlare del nostro ecosistema mediatico. C'è L'ultima ora, thriller della climate anxiety. E, vicino non solo per annata, La bete di Bonello che vira Henry James in chiave sci-fi e, come The animal kingdom, imbastisce un discorso sul futuro prossimo che non può prescindere da una rivalutazione del rapporto tra umano e animale (in questo caso per l'AI che fa slittare l'uomo). Nel film di Cailley non c'è solo il genere fantascientifico ma anche il teen movie - significativa in questo senso la stretta parentela dell'operazione con l'horror di Guadagnino sui cannibali Gen Z, Bones and all. Per concludere la rassegna, sono molti i titoli usciti negli ultimi mesi cui si pensa guardando The animal kingdom, da Il cielo brucia a As bestas: semplicemente i temi - ma anche gli umori - che girano in un momento storico percorso da faglie tanto profonde e potenzialmente apocalittiche non possono che essere gli stessi.
Quella delle "creature" - che fin dal nome alludono a una forma di vita a ritroso, diretta a qualcosa di più elementare, vicino al principio, qualcosa gettato al mondo in uno stato che non intende perfezionarsi - ossia degli esseri umani colpiti da un misterioso patogeno che fa diventare bestie è una metafora chiaramente plurima. Il clima, il contesto è esplicitamente pandemico; il film, come molti titoli sopra citati, viene ideato e scritto durante la pandemia Covid e relativi lockdown e non lo nasconde. C'è il rimescolamento di carte tra l'umano e l'animale che erano stati sempre più separati dalla civiltà con accelerazione esponenziale a partire dalla rivoluzione industriale: il rinculo dello spillover, del contagio - patogeno ma anche ontologico - dal regno animale verso un umano che si era allargato troppo. E inoltre lo sconfinare letterale degli animali nello spazio urbano o antropizzato lasciato libero dagli umani in quarantena - immagini così potenti, viste talmente tanto durante i lockdown, da riversarsi in tantissimo cinema, tra cui anche La bête. C'è tantissimo Agamben in un film che ragiona sulla distinzione biopolitica tra zoe (nuda vita) e bios (vita qualificata) e su come siano il potere e la sua ideologia a fare le squadre. C'è la violenza del lazzaretto, del recinto sacro, del confino, della separazione dello xeno, dell'altro, dell'intruso potenziale untore dal corpo sociale sano. È evidente che le creature siano gli altri (ci fanno paura, vanno sigillati nei centri di accoglienza come i migranti e all'occorrenza abbattuti). È lo sguardo dell'altro - non a caso uno sguardo fisso sullo spettatore chiude il prologo prima dei titoli di testa - a chiamarci in causa e mettere in discussione la nostra identità. Ce ne sarà un altro intenso e protratto tra Emile e la madre pienamente mutata che significherà invece il superamento del paradigma identitario, la possibilità del riconoscimento e del legame transpecie, l'amore. Believing the strangest things / Loving the alien, cantava Bowie come un manifesto. "Poiché ora vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia" scriveva quell'altro parlando di amore.
Nella triade familiare del film la funzione del padre è simile a quello di tantissimi padri - cinematografici e non - recenti i quali incarnano e significano la crisi sociale e soprattutto simbolica di un ruolo. È la parodia di un Lebensreformer per tempi duri, fa quello che può per tenere insieme filosofia e prassi, idealismo e sopravvivenza. A tratti ricorda un altro archetipo da pandemia Covid: il "libero pensatore" antisistema diffidente di medici-scienza-istituzioni, animato da sani principi parafoucaultiani ma preda di confuse derive olistiche o complottiste. Tuttavia, come molti padri del cinema contemporaneo, può essere inefficace e casinista ma difficilmente è malvagio. Ripete a più riprese i versi di René Char "Chi nasce per non modificare nulla non merita né rispetto, né pazienza" per ribadire che nel plastico e nel meticcio sta il valore. E non è poco, di questi tempi. Poi c'è il figlio, Emile, interpretato dal sempre più lanciato Paul Kircher, che è ovviamente fulcro del film. Kircher aveva già messo la propria fisionomia, il proprio corpo dalle suggestioni mutanti - quella schiena curva, quella struttura cervicale che rimanda all'uccello - a servizio del sublime Winter Boy dove incarnava la mutazione adolescenziale, il corpo puberale alieno che comincia a fare cose inaudite e di cui perdiamo il controllo. Ricordiamo a proposito come anche per William Burroughs ci fosse una parentela profonda tra il mutante genetico e l'adolescente. In questo caso le due aree aderiscono e si confondono letteralmente addosso a Emile di cui non soltanto seguiamo la mutazione fisica, la comparsa di escrescenze ossee e cheratinose, dei peli, lo straniamento virale di comportamenti e appetiti ma anche il relativo processo di elaborazione e accettazione. Quando il padre entra all'improvviso nel bagno dove Emile sta cercando di arginare i danni, la sua reazione nervosa è quella di un qualsiasi adolescente con una inedita coscienza di un nuovo corpo nudo che non può più condividere con i genitori. E poi tutto intorno c'è il body horror spinto, cronenberghiano, le estrazioni e operazioni attuate su stessi senza anestesia neppure per lo spettatore, il sex appeal non solo esotico dell'animale quando la ragazza scopa con Emile proprio perché ha capito che è una "creatura" ma soprattutto la paura e il desiderio, l'orrore e l'eccitazione misti nei confronti del proprio corpo nuovo (the new flesh, appunto) che aprono un discorso ulteriore articolato da The animal kingdom a proposito della de-evoluzione.
De-evolvere, virare all'animale significa tornare a sentire il richiamo della foresta. Paradigmatico il momento dopo la festa / coming out quando a Kircher in berserk si para davanti il muro verde / diaframma / soglia e lui l'attraversa. La mutazione, come detto, provoca divergenza tra corpo e volontà che ancora resiste, che ha terrore della regressione. È anche la resistenza atavica di un inconscio di specie programmato per andare avanti. Alla fine il ragazzo cede e si imbosca rinselvatichendosi. Qui il film appare in debito teorico con il pensiero primitivista e in particolare con l'inventore del pensiero selvaggio Pierre Clastres. Lo stato di civiltà e in particolare l'evoluzione verso la società agricola stanziale e divisa in classi è stato un malencontre; se si potesse riavvolgere il nastro si tornerebbe a una società più felice, più egualitaria, con meno guerre e più tempo libero. Clastres parlava di e a sapiens. Il pensiero selvaggio ibridato con le recenti evoluzioni dell'antispecismo dà come risultato l'ambiente e il paesaggio teorico - e fisico - dove si svolge The animal kingdom. Il film è girato nelle Landes, un parco nazionale di foreste e paludi a sud di Bordeaux, un ambiente primitivo che già fece da location a Sotto la sabbia di François Ozon, in quel caso fornendo uno scenario misterioso/inquietante/ieratico a una catastrofe privata ma ugualmente evasiva rispetto alla razionalità. Il sottobosco è tutto felci, segno vegetale principe del preistorico. La deriva di Emile tra stagni, acquitrini e scarpate filmata in pedinamento con camera bassa è un graduale cedimento all'eden, è l'attraversamento soglia dopo soglia di un paesaggio vergine e porta alla colonia delle creature che hanno instaurato una sorta di società indivisa vicino a una parete rocciosa sfrangiata da grotte e anfratti (altri segni ambientali per antonomasia del preistorico). Il basso continuo del ritorno alla preistoria (Emile dorme in una caverna come un Neanderthal) che passa attraverso luoghi e comportamenti è probabilmente la suggestione più affascinante del film. Il senso del paesaggio, così tanto fondamentale nel film, ha almeno tre riferimenti obbligati. Innanzitutto, coerentemente, Jurassic Park. Spielberg è anche nella provincia sonnolenta tutta nebbie espressioniste e luci bianche elettrostatiche dove irrompe l'alieno ma soprattutto nell'aura a metà tra il bovino e la chimera della presenza naturalissima e pazzesca al contempo delle creature ristabilitesi nei boschi delle Lande. E poi c'è quell'inseguimento dentro il supermercato... L'aura delle creature che partecipano di un livello altro insieme dentro la realtà e altro rispetto alla realtà oltre al tema dell'evasione e della caccia rimanda al videogame Pokemon Go! Infine la società delle creature che riesce a stabilirsi per poco nell'ansa del preistorico ha la ierofania e insieme il senso dell'affaccio, del contatto e forse dell'incontro con un modo più giusto di abitare il mondo che si respira spesso nella natura secondo Miyazaki, specialmente nella foresta di Princess Mononoke. Non c'è un istante, nel cinema di Miyazaki, in cui il non umano meriti in quanto tale minore dignità e considerazione; anzi è oggetto di meraviglia e deferenza proprio perché immune alle pulsioni distruttive dell'ecosistema e autodistruttive. L'armonia transpecie, l'alleanza è possibile tra tutto ciò che vive salvo - ahimè - l'uomo. Simile lo sguardo di Cailley sulle "creature" che hanno ritrovato l'innocenza.
Cosa è criticabile dentro The animal kingdom? Probabilmente uno svolgimento delle premesse a pilota automatico nella seconda sezione, con la diffusione delle creature e le diverse posture e schieramenti della comunità fino all'inevitabile caccia selvaggia. Inoltre, in un film che tiene insieme molto bene il realismo con l'alieno, la CGI imperfetta, che mostra il trucco, e la recitazione sopra le righe dell'uomo-uccello interpretato da Tom Mercier. Se chissenefrega della verità dei contabili per sé e della bravura è vero che sono smagliature nella rete di in un film che deve sostenere una costante sospensione dell'incredulità per essere preso sul serio. Sono dettagli. Invece una delle implicazioni più intriganti del film sta nel fatto che la mutazione materna è fait accompli mentre quella del figlio sta cominciando, forse potrebbe essere arrestata se arrivasse un farmaco - lui così giovane, avrebbe tutta la vita davanti! Invece Emile decide di lanciarsi e andare a vedere cosa resta della vita o cos'altro si trova nella terra incognita del post-umano. Lo fa in un finale splendido, commovente, tutto ritmico, montato sulla sincope e il respiro, la tensione e la liberazione. Finire con uno slancio. Che bello, che giusto.