TRAMA
In un quartiere residenziale di Roma sorge una nota scuola cattolica maschile dove vengono educati i ragazzi della migliore borghesia. Le famiglie sentono che in quel contesto i loro figli possono crescere protetti dai tumulti che stanno attraversando la società e che quella rigida educazione potrà spalancare loro le porte di un futuro luminoso. Nella notte tra il 29 e il 30 settembre 1975 qualcosa si rompe e quella fortezza di valori inattaccabili crolla sotto il peso di uno dei più efferati crimini dell’epoca: il delitto del Circeo.
I responsabili sono infatti ex studenti di quella scuola, frequentata anche da Edoardo, che prova a raccontare che cosa ha scatenato tanta cieca violenza in quelle menti esaltate da idee politiche distorte e da un’irrefrenabile smania di supremazia.
RECENSIONI
Il libro di Edoardo Albinati da cui il film è tratto è uno strano mix tra autobiografia (autoanalisi, pure), saggio filosofico-antropologico e ricostruzione storica, in cui confluiscono anche piste romanzesche: 1300 pagine di scrittura fittissima, vorticosa, avvolgente. E a tratti ossessiva, in quel tornare su certi punti, ribadirli, rimeditarli, ampliarli, ridiscuterli. Dell’opera i fatti del Circeo sono il centro non immediatamente visibile al quale si arriva dopo centinaia di pagine che non ne costituiscono solo premessa: esse forniscono informazioni, chiavi di lettura del contesto ambientale, strumenti per comprendere il momento storico. E lavorano per mostrare un impietoso specchio introspettivo (quello di Edoardo - compagno di scuola degli assassini - studente, uomo, padre…) e tessere una tela narrativa che ha del maestoso. La voce narrante (commentante, pensante eccetera) di Albinati invita più volte al salto di pagine e capitoli, casomai si fosse (morbosamente, è sottinteso) interessati soltanto al mero fatto di cronaca: un gioco col lettore che si rivelerà una trappola, nella quale, peraltro, è assai difficile cadere. Come sottrarsi all’intrico di altre storie (di dove, di quando, di come se, di intanto), collegate nel profondo all’oscuro nucleo o che da esso, in qualche modo, dipartono? E che si rivelano il senso stesso dell’operazione? Perché i protagonisti dell’opera, citando l’autore, «sono diventati non più i ragazzi al centro della triste vicenda, ma molti altri ragazzi non meno protagonisti, e le loro madri, le loro sorelle, i loro professori di scuola, i chitarristi e i batteristi che ascoltavano e i produttori delle moto che cavalcavano e gli architetti che progettarono le case in cui questi ragazzi abitavano e gli autori dei libri che li spinsero ad allearsi, ad accoppiarsi e ad ammazzarsi tra loro, o a isolarsi per cercare la verità, o a isolarsi per fuggirla»). Insomma questo mostro a più teste che è La scuola cattolica - dossier più memoir più saggio di costume più fiction più tutto il resto (un romanzo-mondo, si è detto) - mette in campo un discorso sulla società italiana (di allora, di oggi), sul suo intrinseco culto del maschio, sulla immoralità congenita della classe dominante e sul suo sistema di valori, di cui il massacro del Circeo si fa simbolo e micidiale condensato.
Lo spirito di un’opera letteraria così complessa e originale il film cerca di farlo intuire: lo fa componendo un puzzle - che adombra la struttura del testo, senza pretendere di aderirle -, lasciando che sia lo spettatore a indovinare la figura che va a comporre. E il suo significato. Il film accosta dunque gli elementi-tessere che sono l'ambiente della scuola del titolo (con gli emblematici rapporti tra alunni e tutori che riflettono umori e tensioni - del periodo e in incubazione -), quello del quartiere bene romano che la ospitava, i relativi nidi familiari, il nichilismo e l’odio che li pervadevano. Che sottindendono quella violenza che, si dice, in quegli anni era all'ordine del giorno, ma di cui non si specifica mai la matrice, forse perché anch’essa, come il resto, è demandato allo spettatore decifrarla. E forse il punto è questo: La scuola cattolica è un film che sceglie di abdicare a quella parte dell’opera letteraria che sonda filosoficamente i fatti e ragiona sulle cause, optando per un registro di osservazione e mettendo in scena solo dati evidenti, a tratti parziali, a cominciare dalla cosiddetta “buona famiglia” come possibile culla della violenza contro le donne. Che questo, per esempio, implichi che in Italia non esiste un ambito sociale esente da quel batterio che è il mito virile, con tutte le storture che si tira dietro, sta allo spettatore concluderlo (se ritiene, se vuole, se può).
Ciò detto, però, La scuola cattolica è anche film che patisce il tempo limitato e la stringatezza delle sue storie (tutte senza respiro: forse una serie televisiva avrebbe servito meglio lo scopo), che fa percepire la voglia di un affresco, ma non offre mai un’elaborazione soddisfacente delle figure. O un adeguato sviluppo dei motivi meno evidenti, dei quali al massimo se ne abbozza qualcuno (la sotterranea tensione omosessuale, per esempio), e che va coi piedi di piombo nel trattare l'accadimento delittuoso, facendone comprendere la dinamica, ma lasciando ambiguo il discorso delle responsabilità personali, alla luce delle premesse. L’ambiente, i condizionamenti, i precetti inculcati, infatti, nel romanzo venivano doviziosamente descritti, ma altrettanta attenzione veniva posta alle personalità dei soggetti. Come scrivevo sopra, non è un caso che si arrivasse al massacro solo dopo 400 e passa pagine. Non sorprende, dunque (anche se sorprende…), che sia stata la scena in cui il professor Golgota (Fabrizio Gifuni) affronta il tema della colpa il perno delle motivazioni al divieto ai minori di 18 anni della Commissione ministeriale («il film presenta una narrazione filmica che ha come suo punto centrale la sostanziale equiparazione della vittima e del carnefice»).
Certo, un altro problema è la recitazione. Lo dicevo a Venezia, in cui il film è stato presentato fuori concorso: il giorno prima si era visto L'Evénement, che poi avrebbe vinto il Leone d’oro, interpretato da attori giovanissimi, molti alla prima esperienza, e tutti perfettamente intonati al registro veristico impresso alla narrazione. Il film di Mordini, che di verità si vuole parimenti nutrire, dà l’impressione di un cast, soprattutto quello più giovane, fuori controllo, non si comprende se per limiti degli interpreti o per una smisurata fiducia registica.