TRAMA
Bill Baker, operaio petrolifero dell’Oklahoma, arriva a Marsiglia per stare vicino alla figlia Allison, da cinque anni in carcere dopo la condanna per un omicidio che dice di non aver commesso. Nel tentativo di dimostrare l’innocenza della figlia, Bill, frenato dalle incomprensioni linguistiche e culturali, s’imbatte nell’attrice Virginie, dalla quale si fa aiutare per traduzioni e ricerche. Poco alla volta l’uomo ritrova il rapporto con Allison, alla quale fa spesso visita in carcere, e avvia una relazione con Virginie. L’ossessione per il destino della figlia, però, rischia di mettere a repentaglio la sua nuova vita.
RECENSIONI
Ad una prima rapida e superficiale occhiata, Il caso Spotlight e La ragazza di Stillwater – in originale solo Spotlight e Stillwater, per amore di brevità, mentre i titolisti italiani cercano sempre di incuriosire il pubblico inserendo suggestioni e prurigini più o meno veritiere – rappresentano due facce di una medesima medaglia narrativa, due opere dall'identica struttura e innervate dai medesimi stilemi e concetti. Siamo sempre dalle parti del film-inchiesta, tipologia che ha portato all'Oscar Tom McCarthy dopo un inizio di carriera all'apparenza più improntato alla commedia (Mosse vincenti, 2011; Mr. Cobbler e la bottega magica, 2014), ma cambia il fulcro dell'approfondimento. Spotlight, per quanto incentrato sugli abusi sessuali perpetrati da una settantina di sacerdoti dell'Arcidiocesi di Boston, è un lavoro asettico, freddo e distaccato. Un film a tesi, totalmente votato alla dimostrazione indignata del proprio assunto di partenza. Non c'è cuore, in Spotlight, solo testa. E i suoi personaggi, alla luce di questo unico obiettivo, sono funzioni e strumenti che scolorano sullo sfondo della vicenda, figurine di cui è difficile ricordare il volto. Stillwater sceglie invece il percorso opposto: una volta messi a conoscenza della situazione iniziale, riguardante una ragazza americana condannata per omicidio a Marsiglia (la storia si ispira al caso di Amanda Knox) e la volontà di suo padre di provarne l'innocenza, veniamo travolti dall'umanità, in modo persino fuorviante. L'attenzione non è tanto rivolta ad Allison quanto a lui, Bill Baker, operaio trivellatore dell'Oklahoma e “action hero imbolsito, stanco, a tratti ingenuo, non privo di ambiguità ma animato da una fede genuina” (Alessio Baronci, Sentieri Selvaggi). Uno stereotipo vivente – tra cappellini da baseball e camicie a quadri, musica country e preghiera prima dei pasti – che si scrolla di dosso i luoghi comuni con immensa fatica, assemblato con grande sottigliezza e pathos.
E quindi questa è la storia di un essere umano, prima ancora che di un “caso”, un saggio sociologico sull'America conservatrice e trumpiana (nonostante Bill ad un certo punto dichiari di non aver votato per Trump... ma neanche per Hillary Clinton) prima di un pamphlet sulla fallacia del sistema giudiziario. È su questa intelaiatura che si innestano le idee più interessanti, come quella della seconda possibilità di paternità grazie all'incontro a Marsiglia con Maya e Virginie, o come quella del fallimento esistenziale come caratteristica ereditaria. Inseguire Bill nella sua quotidianità significa passare attraverso diversi generi e sottogeneri cinematografici: Stillwater inizia come un film a là Liam Neeson ultima maniera, con un rude padre in missione disposto a fare a cazzotti col mondo; diventa un procedural, con la raccolta di indizi e l'indagine legale delle prove a disposizione; e si trasforma in un dramma amoroso (utile a conoscere più in profondità il protagonista). Il tutto prima di un'ultima parte più sbilanciata e fuori misura, che mina la verosimiglianza fino a quel punto tutto sommato mai messa a repentaglio e che rischia di vanificare quanto di buono espresso fino a quel momento. Mentre è affascinante considerare la vena autodistruttiva di Bill, il modo in cui si esprime appare selvaggio e implausibile, come se provenisse da una pellicola completamente diversa. Un problema essenzialmente di scrittura, che fatica a far convergere linee di trama incompatibili e registri disomogenei in modo armonico e coeso, portando i personaggi a spiegare troppo nel dettaglio le loro motivazioni (quando mantenere un'aria generale di mistero avrebbe senza dubbio giovato). Ma la regia di McCarthy resta generosa, sicura, soprattutto umana, restituendo allo spettatore un'esperienza assieme stimolante e rassicurante: quella del thriller adulto a medio budget – un po' alla Sidney Pollack o alla Alan J. Pakula – che Hollywood non fa quasi più.