Noir, Recensione, Thriller

LA PREDA PERFETTA

Titolo OriginaleA Walk Among the Tombstones
NazioneU.S.A
Anno Produzione2014
Durata114'
Sceneggiatura
Tratto dadal romanzo
Montaggio
Scenografia

TRAMA

New York, 1999. Matt Scudder, investigatore privato ed ex alcolista viene incaricato da Kenny Kristo, sua vecchia conoscenza e ora trafficante di stupefacenti, di scoprire gli assassini della moglie trucidata e fatta a pezzi.

RECENSIONI

Matt Scudder cammina tra le lapidi di un immaginario che sta svanendo, quello della detection, vuoto contenitore di un movimento orizzontale già interpretato. Non c’è più spazio per un Sam Spade o un Philippe Marlowe, le intuizioni non bastano più, cristallizzate come sono nei limiti di un tempo gelidamente diretto verso il suo crepuscolo. In uno scenario tombale abitato da personaggi corrosi dal rimorso, da sadici mostri, da nuove generazioni anemiche nel loro scollamento dalla realtà (il giovane TJ), non vi è possibilità di catarsi, se non la mera accettazione che la chiusura di un cerchio, per andare oltre i residui del genere (il noir classico, il poliziesco alla Friedkin, il thriller alla Fincher, semplificando), passa rigorosamente dal suo atto originario e fondante (un atto di violenza). Tutto il resto non può che essere la più facile delle illusioni, come lo è (stato) il Millennium Bug nella sua apocalisse mancata o la retorica dei 12 steps per uscire dall’alcolismo e abbracciare una qualche formula di spiritualità. In fin dei conti è sempre e solo la stessa storia.

Scott Frank, questa storia, ce la racconta con una fredda e geometrica chirurgia dello sguardo, intrappolandoci in un corpo non più agonizzate, ma già morto, tra rigide scenografie di edifici simili a monumenti funerari e spazi chiusi che sembrano loculi (il furgone della DEA). E tanto buio, che insegue il personaggio di Liam Neeson, spaesandolo. Questo perché, pur essendo a conoscenza fin da subito dell'identikit dei due serial killer, non ha alcun controllo sulle proprie azioni e ogni strato di verità svelato, con ricostruzioni in flashback distorte, in rallenti, fuori fuoco, da una parte trasfigurazione del reale (l'epoca virtuale è alle porte), dall'altra piena comprensione di questo, porta a un vicolo cieco, spesso mortale. La stessa struttura narrativa di A Walk Among the Tombstones cambia focalizzazione, sviando lo spettatore che si ritrova d'improvviso negli occhi del 'cattivo', e accerta ancor di più quanto l'informazione sia sempre in ritardo rispetto al suo utilizzo. L'unica alternativa è la trattativa e mettere sullo stesso piano tutti personaggi, in una mancata speranza che trova il suo ambiente risolutivo tra le lapidi di un cimitero. Il dialogo però non serve, intrappolato com'è nell'individualismo più spietato. E' tutta infatti una questione di subordinazione, reiterata fin dal principio, dalla prossemica di Scudder che esercita il suo potere ponendosi in una posizione sopraelevata rispetto al suo interlocutore (quest'ultimo non sembra già in procinto di venir seppellito?). E a svanire sarà proprio questo universo, in una Vertigine d'immaginario che vedrà superare lo stesso ruolo interpretato dal protagonista, ultimo testimone di un 'realismo' che esorcizza il proprio male virando nel futuro prossimo: il Superhero film. Il dettaglio sul disegno di Tj che rappresenta un ipotetico supereroe, mette in pace il conflitto di Scudder, è il suo ultimo atto di visione e il primo di piena comprensione. Non rimane che assecondare il proprio destino, sapendo che al di fuori c'è forse una nuova forma di legalità, pronta a prendere in mano le sorti di tutti. Illusione o no che sia, lo zoom out finale, con lo skyline di New York digitalizzato come la tavola di un comic, ha un coefficiente teorico e malinconico che vale tutta l'opera.
Requiem.

Popolare creatura hard-boiled dello scrittore Lawrence Block, 17 romanzi a lui dedicati a partire dal 1976 (questo è il decimo, “Un’altra notte a Brooklyn”, pubblicato nel 1992, e ri-ambientato nel 1999 dal regista), Matthew Scudder era già apparso al cinema, con poca fortuna, in 8 Milioni di Modi per Morire (1986) diretto da Hal Ashby e sceneggiato da Oliver Stone. Scott Frank è, soprattutto, uno sceneggiatore di talento (L’Altro Delitto, Minority Report, Out of Sight), passato alla regia nel 2007 con Sguardo nel Vuoto, ma si rivela anche ottimo metteur en scène in un’opera elaborata fra ralenti, flashback e organizzazione spaziale delle sequenze. Drammaturgicamente è ricca di tensione e una spugna evocativa di tanto cinema, dal noir classico a quello moderno, con prologo, invece, prettamente western (Matthew Scudder che, dal “saloon”, insegue e fredda i banditi per strada). Non c’è carattere che sia minore di nome e di fatto, dal pittore tossico di Boyd Holbrook al custode del cimitero di Ólafur Darri Ólafsson, passando per l’homeless minorenne di Astro. Qualche informazione del puzzle si perde nella concitazione di congetture, dialoghi e situazioni o è volutamente lasciata cadere (Scudder rivela di aver già conosciuto i due killer dieci anni prima ma non seguono dettagli), eppure l’opera si distingue rispetto ad altre del genere “azione con vendetta” (Liam Neeson è stato rilanciato nel mercato da Luc Besson) per il ricercato lirismo che accarezza il titolo originale del film, nel modo in cui sceglie come protagonista un uomo “morto dentro” in cerca di riscatto e trova lo zenit nell’idea finale dei dodici passi degli alcolisti anonimi, recitati con nichilismo durante lo showdown, a suggerire che l’ex-alcolizzato riprende a “bere” (impugna la pistola) e non resta che compiacersene.