TRAMA
Il cuoco Ugo, il regista Michel, il giudice Philipe, il pilota Marcello si rinchiudono in una casa per morire di cibo e sesso…
RECENSIONI
L'apocalisse organica di quattro amici, professionisti di buon successo, uomini infelici per il peso dell'insoddisfazione, si coagula in una villetta di periferia, di proprietà di uno di loro, l'edipico giudice Philipe (Noiret). Una nuova dimensione è stata accuratamente pianificata, mostrata ora nel nascere, il camioncino che porta la carne, la lista e le relative descrizioni, la presa di possesso della cucina da parte di Ugo (Tognazzi) e dei suoi coltelli, l'acquisizione dello spazio per tutti. Una dimensione di essere per morire di mortifera ironia: essere sommersi dalla merda come crepare nei modi più assurdi, rincorrendo un progetto in cui cibo e sesso non sono indirizzati al piacere ma all'annientamento, alla spossatezza che prelude il sonno, privo di demoni e ben coperto dal nero.
Nel mentre, nell'attesa fitta di fregola indifferente, il chiacchericcio copre le ferite, il distacco dall'esterno, squarciato per un istante dalla maestra, crea un nuovo cosmo in cui guarnizioni, creme, sformati e prostitute si configurano come strumenti dell'ultima abiezione. Faticosa l'esistenza nel mondo, necessariamente coperti gli istinti e la realtà, spalancati i ventri, liberi di non esistere Ugo, Philipe, Marcello e Michel declinano le possibilità della morte secondo un rigore formale ed una ferocia che punta alla dissoluzione: uomini ridotti a funzioni primarie e disfunzioni correlate, il corpo è il deprecabile vaso di terracotta che mostra le crepe.
Ma cosa mai stanno facendo?
Nulla.
Scivolando lentamente nel catalogo che loro stessi hanno approntato si abbandonano, piccoli, non del tutto simpatici ma in grado di scardinare i binari del mondo che li ha dominati con furibondo sarcasmo, ma forse in questo ancora paradossalmente vittime; ogni irraggiungibile speranza (ognuno dei personaggi ne lascia intravedere) si è tramutata, in un orizzonte limitato, nella soddisfazione della morte. Una donna che ha seguito e partecipato all'ecatombe è un lampo di umanità, finalmente un lumicino stenta a soffocarsi.
La Grande Abbuffata è forse l'opera più nota di Ferreri, forse è pure la sua più completa, fastidiosa nella forma e nei contenuti si regge e sconfina i limiti dell'insita teatralità grazie a quattro attori perfetti sempre in bilico tra lo squarciare la finzione e l'esserne pedine, Ugo Tognazzi su tutti (anche solo per la breve imitazione di Marlon Brando).
Sagra macabra dell’abbondanza, party orgiastico che, da boutade divertente, si trasforma in lenta agonia (procedimento principe della filmografia di Ferreri). Mai i binomi sesso-cibo, amore-morte e il loro incrociarsi (il cannibalismo?) sono stati rappresentati in modo così debordante e disgustato, fino a farne una parabola lugubre e squallida della decadenza borghese, soffocata dalla sua stessa cultura dell’eccesso e dello spreco. Ferreri firma il suo capolavoro, perché in questo soggetto folle, grottesco e/ma inquietante, surreale e/ma concreto nella messinscena, trova il perfetto compendio e la migliore miscela della sua poetica che ama provocare e lasciare nello spettatore, allo stesso tempo, un devastante senso di desolazione. Come risata feroce, pochi gli stanno alla pari, se non La Regola del Gioco di Jean Renoir. Sublime anche la location (ed emblematica), questa villa patrizia in declino, straordinari gli attori i cui personaggi Ferreri caratterizza fortemente: il cuoco, il pilota ossessionato dal sesso, il mammone (che si fa masturbare dalla tata), l’omosessuale (grande Michel Piccoli). Fra una portata e l’altra, si abbandonano al vizio, alla lussuria, in un crescendo che porta alla sequenza “oltre” in cui la maestra elementare masturba fino alla morte un morente ingozzato di paté di fegato, mentre il suo “fidanzato” guarda la scena in modo “comprensivo”. Una “comune” che si concede anche brani eseguiti al pianoforte con accompagnamento di peti, risate per un’esplosione di merda nella ritirata e l’apprezzamento per Tognazzi che imita (molto bene) Il Padrino di Marlon Brando. Indimenticabile l’allegorica ed enigmatica figura femminile: equivocata per una baldracca viziosa, si rivela un angelo della morte premuroso, disponibile a soddisfare qualunque perversione dei suoi ospiti maschi che hanno perduto la voglia di vivere. Atto artistico grandioso, inimitabile.