Drammatico, Recensione

LA FUGA DI MARTHA

Titolo OriginaleMartha Marcy May Marlene
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2011
Durata102'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

Dopo essere fuggita da una setta, Martha tenta di ritrovare una vita normale cercando rifugio e aiuto da sua sorella. Ma la ragazza non si sente ancora al sicuro, perseguitata com’è dai ricordi e dalla paura di venir ritrovata dagli accoliti della setta. Realtà e illusione iniziano a confondersi…

RECENSIONI

L'esordio di Sean Durkin, premio alla regia all'ultimo Sundance, sembra accodarsi ad altri titoli recenti – da White Lightning a Un gelido inverno – nel disseppellire gli incubi covati dalla provincia americana, individuando il bubbone su cui incidere in una fattoria apparentemente fuori dal mondo e dal tempo, ma in realtà poco distante, in linea d'aria, da New York. E alle ferite post-storiche della Grande Mela La fuga di Martha sembra ammiccare sottilmente, aprendo le porte di una Chiesa della Paura camuffata da terapeutica utopia libertaria, dove l'idilliaco ritorno alla natura serve a coprire e giustificare violenze psicologiche e abusi sessuali. Dopo aver compiuto svariate ricerche sull'argomento delle sette religiose, documentandosi in particolar modo sulle testimonianze di ex accoliti della comunità di Jonestown e della family di Charles Manson – non a caso, uno dei rimossi dell'inconscio statunitense più iconizzati -, Durkin decide di raccontare la fuga di un'ex adepta tralasciando tanto il prima che il dopo, oscurando i modi e i motivi che la portarono ad allontanarsi dalla sua famiglia per aderire in toto al punto di vista allucinato della giovane, colta nello spaesamento di chi non è più in trappola fisicamente ma resta impantanata negli strascichi psico(pato)logici del trauma. Per un tema tanto soggetto a sermoni e sensazionalismi, il rifiuto di contestualizzare e didascalizzare una materia narrativa così delicata e perturbante non è un dettaglio da poco. Tanto più che l'orrore della disidentificazione va qui a inscriversi in coordinate mentali estremamente credibili, rispetto ad esempio a Red State, il recente affondo di Kevin Smith sulle sette catto-omofobe del Sud, dove l'intrattenimento macabro rivendicava una buona dose d'inverosimile e l'horror poteva così smussarsi in satira politica. Lontano da caricature morbose o paradossali, la fascinazione esercitata dal patriarca sui seguaci della setta viene esposta da Durkin in modo realistico e palpabile, così come i disturbi percettivi e comportamentali della ragazza rispecchiano con sostanziale precisione una psiche fragile e scissa, stretta tra l'ossessione del passato e il terrore del suo riemergere. O meglio: la giovane sembra tormentata da una paura senza nome né cura, che resetta tutte queste categorie temporali al passo di una nuova vita, costretta a ripensarsi da zero dopo aver rinnegato il proprio genoma borghese e l'illusoria rinascita da affiliata alla setta. Dimentica di se stessa, parimenti delusa ed estraniata da due esistenze costellate a vario grado da bugie, finzioni e violenze, Martha rimane in between, svuotata d'identità e passato, sospesa tra l'ossessione del ricordo e le difficoltà a riadattarsi al mondo reale.

Che due diversi modelli di famiglia, biologica e ideologica, vengano messi impietosamente sullo stesso piano è in nuce già nell'incipit, quando Martha telefona alla sorella, riluttante e prostrata come una bambina appena scappata da casa (Dovrei tornare indietro, sussurra). Se nella comune poteva sentirsi a suo modo amata e vezzeggiata, la convivenza con il cognato e la sorella sembra offrire solo incomprensione e straniamento. Rimasta orfana di una comunità dove sentimento d'appartenenza e orgoglio del proprio ruolo (di insegnante e leader) andavano di pari passo, Martha è costretta d'improvviso a livellare la propria personalità sui freddi e rigidi dettami borghesi del cognato, la cui imposizione viene avvertita, a livello psicologico, in modo ancor più invasivo e violento delle regole della comune. Specie se la chiamata all'ordine civile avviene all'indomani di un processo di spersonalizzazione che ha resettato alla radice l'identità di Martha, spossessandola delle vecchie norme comportamentali e lasciandola più sola di prima. Come se non bastasse, a tale riprogrammazione si accompagna una perdita della percezione spaziotemporale che pare ormai irreversibile: in un crescendo paranoico, Martha fatica sempre di più a distinguere il passato dal presente (accorpati, da Durkin, in un solo flusso visivo privo di segni d'interpunzione) e il ricordo dal sogno (Non ricordo di essermi svegliata stamattina, dice alla sorella, e suona come un'accusa all'inattendibilità di una realtà solo in apparenza familiare e rassicurante). Al progressivo disorientamento della ragazza corrisponde una graduale compressione dei diversi piani temporali, prima giustapposti con stacchi netti e riconoscibili, poi, a partire dalla scena del tuffo (quasi un rito d'iniziazione battesimale), tesi sempre più a compenetrarsi tramite raccordi sonori e sul movimento. Senza più cesure evidenti, le immagini del passato completano i gesti iniziati nel presente (e viceversa), passando dall'uno all'altro con discrezione e precisione. Sono echi di fatti lontani ma tangibili nella memoria, figurazioni mentali di uno sguardo, quello di Martha, a cui il film di Durkin non smette mai di aderire. Disseccato e aperto come il suo titolo originale, La fuga di Martha dà la precedenza al nondetto e all'ellittico, mentre l'attento psicologismo, peccando solo a tratti di schematismo (specialmente nel confronto tra le due famiglie), sa montare una tensione incombente e disturbante, contrappuntata, nella forma, dai lenti e angoscianti zoom a stringere.

A sentire i discorsi del patriarca, sarebbe la paura il sentimento più vicino al Nirvana (lo stato di beatitudine buddista) perchè capace di portare all'estrema consapevolezza del momento, unificando diversi tempi e piani di realtà nel nome di quel presente attanagliato dal terrore che pare informare tutta l'orditura temporale di La fuga di Martha. Quasi a fornirne una pacata confutazione,il film di Durkin mostra come sia proprio l'assoluta presentificazione a gettare la donna nell'incoscienza e nell'alienazione, disgregandone le fondamenta identitarie e affondandola nell'abisso della disidentificazione. Ma lo svuotamento di personalità, massimo spauracchio e cuore del dramma (come suggerisce il bel titolo originale, definizione insieme ingombrante e contratta di un Sé in frantumi), inizia già da quel “Marcy May” con cui il patriarca della setta la ribattezza (un'abitudine a cui ricorreva lo stesso Manson). Poiché nominare equivale a dominare, l'uomo, riportando Martha a una condizione di vulnerabilità psicologica e affettiva propria dell'infanzia, la (de-s)oggettivizza per meglio manipolarla, illudendola della possibilità di riscrivere da un giorno all'altro la propria identità, finalmente liberata da un passato sentito come estraneo e fasullo. A conti fatti, quella di Martha è la condizione di un'adolescenza disperata e universale, un tentativo nevrotico di rimuovere il proprio passato per identificarsi nell'idea di un gruppo e lì rinascere sotto l'egida di un nuovo nome, finendo, inevitabilmente, reificata e/o alienata (non è forse un caso che l'ebbrezza patologica da rinominazione del Sé sia stata efficacemente sviscerata, altrove, dall'incipit di Noriko's Dinner Table di Sion Sono, un altro psicodramma a base di nickname e famiglie incestuose). Fuori dalla setta, il potere del linguaggio decade di senso: quando Martha ripete la definizione di sé come insegnante e leader alla sorella, quest'ultima non la comprende e non vi dà peso: si è al biascichìo meccanico e inconsapevole, alla formula di fonemi morti. Nella comune di fanatici, dove il linguaggio regna invece sovrano, la proprietà della parola resta prerogativa del patriarca, l'unico a disporre della vita e della morte di chiunque (come messo in luce nella scena dell'uccisione del gatto, dove lui stesso, in una prova di forza psicologica prima che fisica, fa della parola un veicolo diretto di morte; è la sua bugia sulla malattia del gatto, infatti, a convincere il seguace a uccidere l'animale). Allo stesso modo, "Marlene", il nome con cui tutte le donne della setta devono presentarsi  al telefono (così è scritto sulla lavagna della fattoria, insieme ad altre istruzioni utili a gestire la comunicazione con estranei), serve a nominare - per meglio legittimare - la violenza invisibile e irrappresentabile della setta, l'anelito di ciascuno alla conformazione (e alla morte) di gruppo, impossibilitati in tal modo ad accettarsi e a sviluppare una propria personalità. Il legame instaurato tra paura e parola resta dunque indiscusso e inscindibile, come ribadito dalla struttura ciclica e senza respiro del film. Fatto d'allitterazioni tra loro concatenate a partire dal suo stesso titolo, Martha Marcy May Marlene non concede in realtà nessuna vera fuga, ma solo un movimento secco e ricorsivo che porta da una prigionia all'altra, dove l'inizio sembra disposto nella sua fine e la fine nel suo inizio.