
TRAMA
John “Scottie” Ferguson, ex ispettore di polizia, accetta un incarico da un vecchio compagno di università: dovrà sorvegliare la moglie di costui, che sembra posseduta dal fantasma di un’antenata…
RECENSIONI
Che cos'è la vertigine che costituisce il titolo originale di questo film? Un improvviso capogiro, una semplice, momentanea perdita d'equilibrio? Oppure uno stato permanente, una passione inestinguibile, che porta l'uomo al di là dell'esperienza comune, fino all'altro lato dello specchio? Fin dai suggestivi titoli di testa disegnati da Saul Bass, la teoria di cerchi concentrici e geometrie "impossibili" che sorge, letteralmente, dall'occhio spalancato di Kim Novak sembra alludere ad una condizione insuperabile, come un continuo, inarrestabile precipitare al di sotto della superficie, oltre l'apparente normalità del mondo, per immergersi in un universo di sogni, incubi, ricordi, desideri. Motore della vertigine è proprio il desiderio, in senso lato l'amore, il bisogno fisico, prima che spirituale, di trovare un punto di riferimento nel cosmo mercuriale dal quale non esiste ritorno. La vertigine, intesa come ricerca (anche inconscia) di qualcosa cui aggrapparsi per non smarrire del tutto la propria identità, tocca tutti i personaggi principali: non solo il protagonista, sofferente di acrofobia per tutta la durata del film, ma la bella Madeleine, che per ben due volte tenta il suicidio precipitando verso il basso (nella baia, da un campanile) e la fida Midge, che maschera con una buona dose di verve sarcastica il suo desiderio nei confronti di John (posto in evidenza dal regista attraverso improvvisi primi piani). Come dice Madeleine, "da soli si va in giro, in coppia si va sempre da qualche parte", si compie un percorso dotato di una coerenza interna, che non riporti i giocatori della vita alla casella di partenza. Ma anche questa è, a ben guardare, un'illusione: la storia d'amore che sta alla base del film è circolare, ripetitiva, frammentata come uno specchio impazzito, irrazionale ("se fossi pazza, tutto si spiegherebbe facilmente"), distruttiva (il finale). Ma perché il percorso di due persone non riesce a convergere? Perché, suggerisce implacabile Hitchcock, noi proviamo amore solo per un fantasma costruito dalla nostra mente.
Tutti, nel film, amano, desiderano, ricordano qualcuno che non c'è più, e forse non c'è mai stato: Madeleine è ossessionata dal ricordo della bisnonna, e ne contempla il ritratto con lo stesso grado di estatica, incredula ammirazione che John riserva alla rediviva Madeleine, Judy è innamorata di un uomo che non la conosce né la vuole considerare, dal momento che cerca in lei solo il fantasma di una morta, Midge finge solo amicizia quando invece prova amore e gelosia nei confronti dell'ex detective. Quello che noi amiamo è lo spettro che ci siamo costruiti dell'altro, non l'altro "in sé", dato che la vita non è che una commedia in cui ognuno recita una parte per ingannare il prossimo. Possiamo rivestire gli altri, come se fossero manichini, di vestiti, gioielli, illusioni, ma non possiamo rendere plastica la creatura ideata dalla nostra mente. Saggio quanto mai crudele e intimamente "sentito" sul desiderio frustrato, che si spinge fino al feticismo e al sadismo per assecondare un inutile sogno di perfezione, "La donna che visse due volte" è, come giustamente rilevato da Truffaut, un incubo, le cui immagini dense, ammalianti, "logiche" e insieme venate di inquietudine si sciolgono all'improvviso in visioni spettrali, come a dire che l'orrore e l'amore traggono origine dal medesimo impulso, dallo stesso desiderio: ma anche i nostri incubi, quando sembrano sul punto di divenire realtà, si rivelano vuoti, illusori (l'apparizione dell'ombra, nel finale). Il cinema di Hitchcock non è mai stato, forse, così "pittorico": oltre a spunti surrealisti, non invadenti come quelli di Io ti salverò, è De Chirico ad essere presente non soltanto nell'acrofobia del protagonista, che percepisce prospettive deformate, "allungate", simili a quelle delle piazze del metafisico, ma nella struttura stessa della missione fuori città, vero motore dell'azione, i cui porticati bianchissimi e terribilmente deserti rimandano ai quadri del pittore italiano. Il che spiegherebbe anche la predisposizione a considerare i personaggi come semplici manichini, assemblaggi dei desideri altrui. Kim Novak, in una parte pensata per Vera Miles, ha raddoppiato la parabola del suo personaggio: costretta a indossare vestiti pensati per un'altra donna e a muoversi come se fosse un'altra persona, comunica tutto il senso d'impotenza, lo smarrimento di chi nega se stesso per amore di un oggetto irraggiungibile. Probabilmente è più a suo agio nella parte dell'algida e fragile Madeleine, piuttosto che in quella dell'irruente e desolata Judy, ma la sua prova è, nel complesso, memorabile, al pari di quelle di James Stewart, giustamente prediletto da Hitchcock per le parti d'invalido voyeur, e Barbara Bel Geddes, sapientemente autoironica. Colonna sonora immortale, firmata, ovviamente, Bernard Herrmann.
