TRAMA
Bruno Stroszek, un artista di strada, esce dal carcere dopo un periodo imprecisato di reclusione. Insieme ad Eva, una prostituta malmenata dai suoi protettori, e a Scheitz, un vecchietto strambo e gentile, parte per gli Stati Uniti. Destinazione Midwest.
RECENSIONI
Il cerchio per me suggerisce nello stesso tempo il rituale e linevitabile (Werner Herzog).
Sceneggiato in soli quattro giorni da Herzog come risarcimento a Bruno S. (già protagonista de L’enigma di Kaspar Hauser) per la mancata scrittura in Woyzeck (il ruolo a lui promesso verrà assegnato a Kinski), Stroszek non è un semplice apologo sulla marginalità e sulla diversità, ma è, per così dire, l’alterità stessa precipitata in linguaggio cinematografico. Dilatando all’infinito lo spaesamento esistenziale del road movie, con questo film il cineasta tedesco fonda infatti un anomalo sottogenere, quello dell’abroad movie (se ci è concesso il barbaro neologismo), categoria a un solo membro di cui Stroszek rappresenta l’unico e perfetto esemplare. Non soltanto straniero a se stesso, come nella migliore tradizione dei film sullo sradicamento, Bruno è irrimediabilmente altro da sé, oggetto fra gli oggetti: parla di sé in terza persona, non dice mai “io”, dice “il Bruno” anteponendo addirittura l’articolo al nome; i suoi migliori amici sono strumenti musicali (“che ne sarà di loro, se il Bruno muore?”, si domanda preoccupato) che maneggia come fossero estensioni del suo corpo, vere e proprie protesi (si pensi alla sequenza del cortile, in cui la mano sinistra muove la fisarmonica, mentre la destra percuote i tasti di un vibrafono). Incapace di dominare adeguatamente il linguaggio verbale e di strutturarsi attraverso di esso, Bruno affida la formulazione della propria identità alla pratica musicale, ai segnali acustici (quando viene scarcerato, la prima cosa che fa è soffiare nella sua tromba, soltanto dopo pronuncia “Il Bruno torna in libertà”). È un uomo che esiste soltanto grazie alle cose, che nelle cose si smarrisce per poi ritrovarsi: la sua casa è una gigantesca collezione di oggetti sui quali riversa l’affetto e l’amore che gli sono stati negati. Sotto il profilo stilistico, La ballata di Stroszek possiede la stessa propensione a perdersi, a non riconoscersi che caratterizza il suo protagonista: un’inclinazione allo smarrimento, all’abbandono totale alle suggestioni del momento. Se è vero che la parte ambientata negli USA appare meno asfittica e claustrofobica di quella girata a Berlino, la scala delle inquadrature allargandosi sensibilmente, è altrettanto vero che il film non si cala mai in una misura espressiva definita, in una velocità narrativa uniforme, rifiutando con nettezza tanto il principio strutturale della progressione drammatica quanto quello, solo in apparenza meno vincolante, della spontaneità incontrollata da cinéma vérité. Uno stile che si definisce in negativo, insomma, come impronta di un approccio straordinariamente elastico: troupe leggerissima (12 persone in tutto) e metodo di lavoro a metà strada tra improvvisazione (quasi tutti attori non professionisti incoraggiati a lasciarsi andare) e alta professionalità (la fassbinderiana Eva Mattes e, coadiuvato da un giovanissimo Ed Lachmann, il fido Thomas Mauch come direttore della fotografia). Immersa in paesaggi sarcasticamente aperti e orizzontali (siamo nei dintorni di Plainfield, i luoghi di Errol Morris), la trasferta americana di Bruno si rivela in realtà la storia di una progressiva e ineluttabile chiusura del suo orizzonte vitale: la mdp la riprende con agghiacciante trasparenza, filmando con dolcezza terribile e infinita la quintessenza della tristezza umana. E mentre il camioncino in fiamme di Stroszek (nome tenacemente herzoghiano: anche il protagonista di Segni di vita, il primo lungometraggio del cineasta tedesco, si chiama in questo modo) gira in cerchio, l’armonica di Sonny Terry sibila furiosa Old Lost Joe. Un film “novembrino”.